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Per raccontare la storia che vede Pasha e Yulia coinvolti in un evento collettivo violento e (per loro) inatteso, il cineasta russo Boris Guts, qui al suo quarto lungometraggio, sceglie di affidarsi allo strumento linguistico – sempre meno infrequente, a dire il vero – del piano sequenza unico. Primo risultato di questa scelta è quello di mostrare allo spettatore come l'esistenza e le aspettative di una giovane coppia possano sgretolarsi nell'arco di un'ora e mezza scarsa, quasi senza alcuna responsabilità da parte loro, travolte da una catena di azioni in cui la sfera individuale e quella socio-politica si confondono lasciando sul terreno soltanto rovine.

L'aggancio storico è dato dalle proteste scoppiate a Minsk il 9 agosto 2020 dopo la rielezione del presidente uscente Lukashenko e dalla risposta brutale della polizia antisommossa bielorussa al movimento dei manifestanti. Il film inizia nell'appartamento in cui abitano Yulia e Pasha, dove la coppia, che sta cercando di avere un figlio, si sta scambiando tenerezze dopo un rapporto sessuale. La decisione di uscire aprirà la strada a una serie di incontri che presto culminerà con l'impatto traumatico con la polizia, con la violenza esercitata in piena impunità fino alle estreme conseguenze, per sfociare – al termine di un percorso dalle svolte sempre più imprevedibili – in un  ritorno a casa, in cui il progetto di un futuro cullato nell'intimità viene sostituito dal caos quale unica cifra caratterizzante il presente e il futuro.

Se l'opzione dell'unico piano sequenza evidenzia in tutta la sua brutalità il tempo della storia, concentrato in poco più di ottanta minuti della durata del film, i fatti si inseguono in una continua variazione dei luoghi e del tempo/ritmo del racconto, contribuendo così con questa mobilità interna a tenere lo spettatore in uno stato di inquietudine, con picchi di angoscia reiterati e, almeno in un paio di casi, così improvvisi da lasciare senza respiro. “Respira” è, non a caso, un'esortazione che si ripete a intervalli, per voce di personaggi diversi, e che sembra rivolgersi allo stesso spettatore travolto da ciò che è costretto a vedere senza potersi dare una spiegazione chiara di quanto sta avvenendo. Se il titolo, Minsk, ci colloca geograficamente indicando in quale città sta avvenendo ciò che vediamo, il film lascia sospese altre domande che sorgono man mano che il racconto procede – o vi risponde solo in modo allusivo. Sul piano linguistico il piano sequenza istituisce un punto di vista interno che colpisce duro sul piano emotivo senza contribuire realmente a costruire un senso in grado, in qualche modo, di rassicurarci spiegando; che lo sguardo narrante si ponga a tutti gli effetti come quello di un personaggio interno al racconto diventa evidente nei due momenti in cui entra letteralmente nell'automobile insieme ai personaggi, collocandosi accanto all'autista mentre gli altri occupano il sedile posteriore, rendendo naturale una distribuzione dei posti che di per sé naturale non è.

Il film inizia sul volto ravvicinato di Yulia e si chiude allo stesso modo, con una plongée che non dà scampo alla giovane donna, la quale nel frattempo ha avuto modo di maturare la confusa consapevolezza di quanto fosse assurdo di per sé il desiderio di maternità coltivato soltanto poco più di un'ora prima come qualcosa di naturale. Ma anche l'espressione annichilita che quel volto ci offre si risolve, in fondo, in una domanda estrema rivolta allo spettatore come a uno specchio.