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Pietro e Simone, orfani di madre, vivono con il padre e la nonna in una casa colonica dell'appennino romagnolo.  Per comperare l'attrezzatura agricola l'uomo si é indebitato con uno strozzino che di continuo lo minaccia e gli manda avvertimenti di stampo mafioso. Pietro sembra dotato di strani poteri: riesce infatti, concentrandosi, a piegare chiavi, stoviglie e barrette di metallo con il solo sfioramento. Per questo é oggetto di studio da parte del professor Moretti, che si occupa di dare una spiegazione scientifica ai fenomeni cosiddetti paranormali. La promessa dell'ingente premio di un'ente americano alletta il riottoso padre, che pensa in tal modo di risolvere i propri annosi problemi economici, tanto da convincere infine Pietro a sottoporsi al giudizio di una commissione di incalliti negazionisti.

Le proprietà dei metalli, opera prima di Antonio Bigini,  mette in scena una sorta di Uri Geller bambino, collocandolo sullo sfondo degli anni settanta, targati da una Lancia Flavia che si inerpica su strade sterrate e dalla televisione in bianco e nero che trasmette Sandokan interpretato da Kabir Bedi. Pur lasciando nell'ambiguità il giudizio sulle doti magiche di Pietro, il regista ha dichiarato che il film «racconta gli ultimi bagliori di un paganesimo rurale, già contaminato dalla società dei consumi», tanto più necessario oggi che la sua rimozione ha prodotto un bisogno latente di mistero. Forse il ragazzo piega davvero i metalli, ma crede allo stesso modo di essere responsabile della morte dello strozzino in quanto da lui voluta. Di questa dimensione in qualche modo favolistica risulta emblematico, oltre che figurativamente efficacissimo, quel barbagianni che scruta perplesso l'obiettivo che lo inquadra nella notte prima di volar via con un solenne battito d'ali.

Ma il fascino lieve di questo lungometraggio che riesce a fare virtù di stringatezza della necessità di un budget ridotto consiste soprattutto nel rifiuto di spettacolarizzare il caso, mostrandone con rigore la complessità, sia sul piano psicologico che scientifico. Nella freschezza con cui registra la quotidianità infantile, memore della lezione comenciniana per cui è fondamentale, per far recitare i bambini, non trattarli come tali, forse anche dell'indimenticabile Amelio di Il piccolo Archimede. Nella disinvoltura con cui gioca sulle dimensioni fisiche dei personaggi, con il professore che guarda il dodicenne Pietro dall'alto dei suoi due metri circa. Nella felice commistione delle lingue, il dialetto della nonna, l'italiano approssimativo dei bambini, quello con forte accento americano del cattedratico, o con tracce del castellano del padre, interpretato appunto da un attore spagnolo. Infine, nello sguardo discreto ma complice nel valorizzare un paesaggio scarno, di calanchi, prati e cascine dell'appennino tra le province di Forlì, Rimini e Arezzo, non così autorevole da imporsi immediatamente alla vista ma forse ancor più commovente in quanto la sua grazia é affidata alla scoperta individuale.