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 Estratto da Cineforum n. 200, dicembre 1980. Radio On di Chris Petit - Eroi per un giorno solo (Davide Ferrario, Adriano Piccardi)

 

Nel corso del suo viaggio verso Bristol, Robert, il protagonista del film, si imbatte In un giovane benzinaio, fan della defunta star del rock Eddie Cochran, morto anni prima li vicino. Il riferimento a certe situazioni di Wenders è plateale, ma anche qui scatta lo strano iperrealismo di Radio On. Il benzinaio è Sting, leader dei Police, una star del rock vera e vivente. Robert e il benzinaio cantano insieme, si scambiano battute che rivelano un sottofondo di identiche vicende generazionali. «Ho un gruppo», dice Sting «roba locale». Qui Radio On non fa soltanto il verso a Nel corso del tempo: caricando i propri personaggi di una simbologia «eccessiva» che gioca sull'identità degli attori (semmai, un po' come ne L 'amico americano), Radio On ironizza su se stesso, bruciandosi continuamente le chanches di progressione e di sviluppo, rigettando in un pessimismo senza scampo gli appigli a cui i personaggi di Wenders si aggrappano per «cambiare tutto».

Cruciale è in Radio On proprio la funzione degli attori. Nel film di Wenders i personaggi che affiancano i protagonisti rappresentano sempre stadi di un'esperienza che il protagonista porterà a compimento. Non strettamente metaforizzabili, essi rappresentano però dei punti fermi che acquistano valore solo rispetto all'itinerario del protagonista, spesso come simboli di una qualche condizione o termine esistenziale che egli deve affrontare. Qualcosa del genere avviene anche in Radio On; ma ad un secondo livello gli attori rappresentano anche se stessi e non solo i personaggi. Se infatti in Wenders Lisa Kreuzer è quasi sempre la donna, il femminile, in Radio On Lisa Kreuzer è anche Lisa Kreuzer come appare nei film di Wenders - e la figlia che sta cercando si chiama Alice! Sting non è solo il ragazzo di provincia che vuole diventare famoso, lo è già, anche. Sovrapponendo questa serie di riferimenti - ce ne sono a decine nel film e non sono citazioni - alla sua storia, Petit evita di rimanere intrappolato a «scuola» e produce una curiosa ambivalenza che funziona meglio proprio dove la rielaborazione sembra più scontata. Godardianamente dentro e fuori dall'ortodossia narrativa, Petit ha fatto un film indubbiamente «freddo» e metafilmico, ma non privo di un suo impatto «realistico». Ma c'è un'ulteriore affermazione da fare circa questi personaggi che interpretano se stessi: un affermazione che introduce alla dimensione di radicale annullamento che il film instaura circa la possibilità di una qualsiasi comunicazione destinata a fare della storia del singolo individuo una crescita esperienziale (nel senso pieno che affiora dal cinema di Wenders, ad esempio). La rottura irrimediabile si verifica cioè nell'appiattimento della distanza tra interprete e la propria immagine costruita e conosciuta dal pubblico attraverso il sistema dei media dello spettacolo.

È proprio questo sistema che si afferma cosi quale unica mappa di riferimento e produttrice di senso: non rimane, in seguito a questa operazione, alcuna realtà «naturale» in cui possa svilupparsi l'esperienza costitutiva di una storia personale. Non si può «comunicare» con un segno dell'industria dello spettacolo: lo si consuma, tutt'al più, in un incontro che non ha niente a che fare né col passato né col futuro e dà luogo solamente a una situazione dove ciò che conta è solo il presente, di volta in volta valevole soprattutto per se stesso, per il modo specifico della propria consumabilità.

(…)

Ma quale spiraglio di mutamento si potrebbe intravedere nel mondo messo in scena da Petit? Un mondo dal quale tutta la cultura di massa (e la riproduzione critica di tale cultura che da alcuni - anche da Wenders - è stata data) è anteriormente assunta come dato di fatto, come insieme di relazioni attraverso cui il film svolge il suo discorso personale. Cultura industriale, che permea di sé ogni gesto di Robert, in maniera particolarmente ossessiva nella prima parte del film, prima della sua partenza per Bristol: i suoi unici interlocutori sono musicassette, registratori, tergicristalli, radio, dischi, interruttori, lampade, pulsanti, videogames. Una panoplia di oggetti e di strumenti meccanici a cui si contrappongono - sole presenze umane - una donna che abbandona Robert con poche parole a cui questi non trova argomenti per opporsi, e gli operai della fabbrica in cui Robert fa il disc jockey. Operai che si «parlano» attraverso le dediche commissionate a Robert stesso e ripetute dagli altoparlanti che diffondono la musica che faccia lavorare meglio e in silenzio.

In seguito, con l'inizio del viaggio, le cose non cambiano. Si potrebbe pensare che la fluidità di questo scorrere in avanti si contrapponga come una sorta di movimento liberatorio rispetto al circuito chiuso della città, ma nonostante il senso di libertà suggerito (libertà peraltro pesantemente ironizzata dalle canzoni che escono dalla radio, Radioactivity e Always Crashing in the Same Car), la situazione rimane ermeticamente bloccata. A riprova di questo è facile constatare come il viaggio sia condotto essenzialmente in solitudine (e i vari incontri concorrono - ognuno a suo modo - a sottolinearla, non a scongiurarla). È vero che nel frattempo la casuale ripetitività del comportamento di Robert comincia ad ammettere eccezioni: Robert prende a guardare e ad osservare (e questo coincide con l' apparizione nel film delle prime soggettive, in diretta contrapposizione con i punti di vista espressi in tutta la prima parte, compresa la splendida e innaturale macchina a mano iniziale). Ma è proprio questo privilegiare l'ambito dello sguardo che dà la misura della freddezza e della distaccata introiezione che segnano la dimensione del rapporto tra Robert e la realtà: distacco sottolineato anche dalla presenza del parabrezza quale schermo nello schermo che accresce il numero delle mediazioni già presenti nel film.

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Esaurita ogni fiducia nella funzione del dialogo, nella ricerca socializzata della parola, la solitudine non assume alcuna dimensione tragica: della propria solitudine tra gli oggetti e di fronte alla realtà e alla natura si può, anzi, fare oggetto di gioco, utilizzando per questo anche un involucro di regole anteriormente codificate, purché svuotato da ogni finalità di «vittoria» o di «sconfitta». Se Robert, sulla strada del ritorno, si ferma con l'auto sull'orlo del precipizio, non ha nessuna intenzione suicida, semplicemente corteggia il brivido del vuoto. Ma la macchina non riparte: impossibile spostarla avanti o indietro. Sancendo il nulla di fatto definitivo a cui è approdato il film, Robert compie il suo atto da «eroe di un giorno solo»: lascia la macchina lì dov'è, con il registratore acceso che suona Ohm Sweet Ohm dei Kraftwerk. L'ironia è totale.

Così come chi getta in mare un messaggio in bottiglia compie un gesto che della richiesta d'aiuto ha solo una labile apparenza, a causa della assoluta sproporzione tra l'oggetto utilizzato come veicolo e l'ambiente a cui affidarne il viaggio, e in definitiva si rivela soprattutto un'affermazione d'esistenza al di là di ogni ragionevole speranza; così Radio On ha del messaggio in bottiglia tutta la precarietà legata al compito di dover imporsi - per farsi scoprire e «leggere» - a tutta una cultura di massa che promette ancora (e anche in contraddizione con i presupposti della propria esistenza) facili salvezze al riparo della logora categoria dell'«umano». È forse un'impresa troppo ardua, in simili condizioni, mostrare che si può spingere lo sguardo oltre, alla ricerca di una forma di conoscenza e di padroneggiamento (fosse pure solo estetico) degli elementi affioranti da un domani (perché no) «post-umano».