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Una famiglia di etnia albanese cerca di ambientarsi e vivere in Inghilterra (a Braknell, nel Berkshire, anno 2002). Sarà arduo e complicato: la famiglia è scappata da Mitrovice, nel Nord Kossovo, per la guerra che oppose intorno al 2000 serbi e albanesi (che portò una città storicamente di operosa e pacifica convivenza a dividersi sanguinosamente in due, in tensione sulle opposte sponde dell'Ibar), e ora, ristabilitasi la pace, al falegname Shaqa viene negata la residenza/cittadinanza richiesta. Intanto la figlia Vjosa rimane incinta e non sa come dirlo al padre.

La situazione già intricata e drammatica subisce una ulteriore impennata. Il buon Giovanni, presso cui la moglie di Shaqa, Sevdija, presta servizio come domestica a ore, lancia un'idea: perché non sposare un inglese e ottenere così una cittadinanza che rimarrà comunque, anche dopo il divorzio? Un'idea che porterà a imprevedibili conseguenze. Il dilemma è forte, con in più le figlie che non sanno bene che fare per non far scoprire al padre ignaro una gravidanza per lui dolorosa e scandalosa...

Un oceano ci separa dal simpatico e brillante Green Card (1990) di Peter Weir, con il musicista Gerard Depardieu che per lavorare negli Usa deve avere un documento di lavoro che ottiene solo sposando Andie MacDowell, ma la tematica ha comunque punti di contatto (qui ovviamente aggravati).

Alban Zogjani, l'autore è chiaramente di origine kossovara (vive a Pristina, la capitale), è al suo primo lungometraggio dopo il corto E dashura Nita (2014) e la produzione di Echo (2016) di Dren Zherka che, pur ambientato in Germania, presenta una stessa tematica di fondo, ovvero la solitudine dell'emigrante, sradicato, forestiero, non accettato se non formalmente.

Quel che si deve notare di Okarina è che il centro del racconto non è incattivito tanto su questioni razziali o sociali, anzi... come afferma la produttrice Rita Krasniqi: “è importante notare che questo film si concentra su questioni domestiche, su tensioni psicologiche e come queste influiscono sui singoli membri della famiglia”. È cioè una battaglia quasi tutta interna e non è difficile immedesimarsi e partecipare emotivamente all'energia di Shaqa e Sevdija per non perdersi in un “nuovo” e imprevisto orizzonte così lontano dalle loro convinzioni etiche (“davvero pensi di sposarti per un documento?”) e sentimentali.

La costruzione narrativa e cinematografica è ammirevolmente concentrata e non dispersiva. Una fotografia molto curata (di Alex Bloom) descrive con apparente serenità la campagna non tanto lontana da Londra, così come le scenografie (di Syla Deltina ed Egzona Kadriji) e persino l'attenzione ai suoni; si veda all'inizio la sottolineatura del fastidioso schioppettìo della motoretta che sta portando Shaqa nel bosco, disturbando la concentrazione di una bionda praticante di yoga: del resto si sa, gli emigrati disturbano gli occhi, il naso e le orecchie del civilizzato occidentale! Peraltro - ed è lì la delicata malizia che in fondo ci chiama in causa – forse infastidisce più noi platea (che ne sorridiamo) che non la stoica signora (signorina prego!).