Concorso

Kollektivet di Thomas Vinterberg

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Dopo la parentesi britannica di Via dalla pazza folla (2015), Thomas Vinterberg torna a girare in patria per fare ciò che sa fare meglio: raccontare la società danese attraverso i rapporti familiari. Anche se a dire il vero non è una vera e propria famiglia (o non solo) ad essere protagonista di Kollektivet.

Siamo a Copenhagen nel 1975 e la storia è quella Erik, professore universitario di architettura, di sua moglie Anna, celebre speaker del telegiornale nazionale, e della loro figlia adolescente Freja che, dopo aver ricevuto in eredità una grande villa decidono – invece di venderla – di chiedere ad alcuni amici e conoscenti di condividere la casa con loro. La comune del titolo è formata dunque da questo gruppo eterogeneo di persone che – in un tentativo di applicazione perfetto della democrazia – abita la casa (di cui tutti sono proprietari allo stesso modo) e prende ogni decisione in maniera collettiva, facendo riunioni e mettendo ai voti le proposte. L’armonia iniziale viene presto intaccata quando Erik inizia una relazione extraconiugale con Emma, una delle sue studentesse. Confessato il tradimento alla moglie – che pur ferita, sopporta – Erik le dice anche di provare un sentimento talmente forte per l’amante da non poter fare a meno di lei e tuttavia di non voler abbandonare moglie e figlia. L’idea di Anna di chiedere a Emma di unirsi alla comune (quest’ultima inizialmente titubante ma poi accogliente), porta a una serie di conseguenze che mina la stabilità mentale della donna e l’equilibrio stesso della comunità.

Copenhagen molto più di tante città europee più grandi, famose e cool è stata (e per certi versi è ancora) la città degli hippie. Il movimento ha cominciato a “occuparla” sin dalla fine degli anni Sessanta, mentre nel 1971 vi è stata fondata quella che è diventata la comunità hippie indipendente più grande d’Europa, oltre che lo squat più longevo e fortunato mai esistito: Christiania. È dunque un luogo – come lo è nell’immaginario comune tutto il nord dell’Europa e la Scandinavia in particolare – che più di ogni altro si presta a per ambientare un film che parla di esperimenti sociali come quello descritto in Kollektivet. Vinterberg non sceglie però la prospettiva hippie per raccontare la sua storia e anzi, gioca proprio con i luoghi comuni e con le influenze culturali che un tale universo fornisce, per mettere in scena questa (crudele) parabola di normalizzazione.

I protagonisti del film non sono hippie o fricchettoni nel senso stretto del termine e, per quanto molto diversi fra loro, sono donne e uomini a loro modo inseriti nel tessuto sociale nel quale vivono. Tuttavia le aspirazioni di emancipazione dalle convenzioni borghesi e da uno stile di vita omologato – mosse più dall’eccitazione dell’esperimento che da concreti ideali anticonformisti – li rendono modelli emblematici di un’espressione sociale che percorre il discrimine fra adattamento e resistenza.

Cacciate dalla porta però, le convenzioni sociali rientrano rapidamente dalla finestra ci dice il regista. E ogni tentativo di ergere il proprio desiderio a barriera per arginare l’istinto (che qui è più che mai un prodotto culturale) finisce per creare un corto circuito relazionale dalle fortissime implicazioni emotive. Anna ne fa le spese e con lei il ménage familiare che la lega a marito e figlia. Lo sgretolarsi progressivo della relazione parentale assume i contorni della descrizione di un fallimento che coinvolge non solo il nucleo famiglia, ma si allarga a tutta la comunità. Il baluardo democratico, tollerante e inclusivo che la comune incarna, retto su regole che rifiutano ogni forma gerarchica ed eleggono la libertà a modello di comportamento, finisce quindi per arrendersi alla più oligarchica e reazionaria delle scelte. Ovvero sceglie di espellere l’elemento che crea lo squilibrio; o per dirla in maniera più diretta, si libera semplicemente della mela marcia. Illustrando l’esplicita, netta e beffarda rivincita dei principi sociali sulla (presunta) legge di natura.

Vinterberg a suo agio come non mai quando si getta in un racconto dove i conflitti covano sotto le psicologie dei personaggi è molto bravo (addirittura didascalico) a dare corpo all’ambiguità e alla sottilissima ironia che circonda ogni situazione. Il ritmo incalzante che gli permette di tenere una regia quasi completamente racchiusa in interni inoltre, dà un’idea visiva molto precisa di come tutto – i personaggi sì, ma anche le loro convinzioni, gli ideali e gli istinti – sia circondato da un’enorme e segregante gabbia. Ma anche come i panni quando sono davvero sporchi – come insegna il primo dei principi morali borghesi – si lavano sempre e soltanto in casa. Sia che questa casa ospiti il più convenzionale dei nuclei familiari, o che ad abitarla ci sia una grande e allegra comune.