Foto diario: della ragione sulla passione

One Man Berlinale #2

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Se l'alba nel mio cortile da “former industrial estate” a Koepenick, (formula che indica in realtà le rovine di una fabbrica da archeologia industriale non ancora recuperata) nella zona a sud est di Berlino, può sembrare triste l'arrivo, almeno un'ora di U ed S-Bahn dopo, in Potzdamer Platz, con l'anteprima di una giornata di sole, riesce ad aprire il cuore.

Anche perché i prodromi non sono sempre consolanti, come nel caso della spolverata di neve che mi sveglia al secondo giorno di festival

ma tant'è, l'allegria dev'essere davvero contagiosa se ne risente persino Lav Diaz (e tutta la sua troupe) il regista del lunghissimo A Lullaby for the Sorrowful Mystery, che, a dispetto delle sue 8 ore, risulta più leggero di molti film visti qui e che non arrivavano all'ora e mezza di durata.

Sarà per la mesmerizzazione dello sguardo che A Lullaby... opera sullo spettatore, sarà per il suo discorso sulla Storia (che è fatta dell'insieme delle storie dei suoi tanti personaggi), sarà per la maniacale cura nella composizione dell'immagine, mai però schiava di una estetica fine a se stessa, ma questo bianco e nero trasforma definitivamente il verde onnipresente della giungla in un universo parallelo, creando l'immagine magmatica di un mondo altro, in cui gli uomini non sono neppure lontanamente padroni del proprio destino, ma condannati piuttosto a subire ciò che il fato ha deciso per loro.

La profondità di campo è sapientemente dosata. Ogni quadro è una riflessione sul mezzo cinematografico (si vedano le citazioni dirette dei Lumiere al suo interno) e sulle sue apparentemente dimenticate possibilità.

Perché intervenire sui cambi di luce durante un piano sequenza? Perché compensare dei bianchi magari anche bruciati in qualche zona del piano? Non è forse cinema, cioè linguaggio, cioè codice quello che usiamo quando scriviamo, giriamo e certamente tutte le volte che “vediamo” cinema?

Certo. Se cerchiamo di dire qualcosa dobbiamo anche accettare la possibilità del fallimento, l'alea del gioco. Come quando affrontiamo il tavolo da gioco di una roulette (a volte anche russa).

Ma per fortuna la ragione ha la meglio sulla passione: “About the reason over passion, that is the theme of all my writings” come dice Trudeau, e, nonostante il pericolo dell'aporia, del trovare la strada senza via d'uscita, i film ancora si fanno.

E dopo averli fatti si presentano, per esempio qui, in un grande festival.

Anche se il messaggio forte e chiaro quest'anno e da questa Berlinale è che i film, se mai ci sono stati, hanno certamente cessato di esistere.

Divisi tra mille schermi digitali, smart tv, computer, iphone, tablet e, solo alla fine, forse, ancora in sala, hanno lasciato per sempre (?!) il posto alla “nostra” fruizione del “loro” contenuto.

Sono più che mai effimeri, impalpabili, privi di corpo. Coincidono con il fatto che li guardiamo e a volte, molto più raramente E SOLO SE SIAMO FORTUNATI, riusciamo anche a vederli.

A farci trasmettere da loro qualcosa. Fosse anche solo un'emozione, una sensazione o, per dirla con un evidente ossimoro, un contatto dell'anima.

Il contatto tra due anime. La mia e quella del regista.

Ma... scusate, io sto vaneggiando e voi invece dovete assolutamente dare un'occhiata agli aggiornamenti sul vostro profilo FB...

Attenti però. Alle vostre spalle l'orso è già in agguato.