Foto diario: Schienenersatzverkehr

One Man Berlinale #4

focus top image

 

Anche quest'anno la Berlinale chiude i battenti a partire proprio dal Palast, la sua sede più prestigiosa: l'ultima a essere pronta per l'inaugurazione, la prima a sbaraccare dopo la cerimonia di chiusura del sabato sera.

Subito dopo tocca al Grand Hyatt Hotel e al quartier generale della stampa che in un attimo, con tutte le sue sedie ammonticchiate, non ricorda più nemmeno lontanamente l'operoso formicaio che era fino a qualche ora prima.

E se Fuocoammare aveva buone, anzi ottime possibilità di ricevere un premio, la conquista proprio dell'Orso d'Oro per il film di Gianfranco Rosi devo dire che mi sorprende piacevolmente. Evidentemente questa giuria ha consapevolmente scelto di far pesare maggiormente i punti di forza (e sono tanti) piuttosto che le debolezze di questo toccante documentario creativo.

Rivedendolo nella mia testa penso a quest'estate, una mattina di fine agosto, quando nel comune di Torre Salsa, in provincia di Agrigento, camminando sulla spiaggia incontro il relitto arenato di questa barca, che ha un nome arabo scritto sulla fiancata.

Se ancora c'é qualche riserva i vestiti bagnati di chi la occupava, abbandonati a pochi metri sulla riva tolgono ogni dubbio.

Guardare, incontrare, passare accanto a questi segni, persino fotografarli, è incommensurabilmente più forte, più coinvolgente che leggere una notizia o ascoltare un Tg, che ci informa con freddi  numeri sull'ultimo sbarco di migranti, che ha toccato le nostre coste.

E uno dei significati di Fuocoammare può essere proprio questo: un conto è pensare alle stragi e un conto è vederle, contare i cadaveri nel ventre di questi barconi. Un conto è sapere quanto costa il viaggio dalla Libia a Lampedusa per un migrante e un conto è sentirlo cantato in un tragico rap, dalle voci di chi, reduce dalla traversata (per puro caso, o perché ha potuto pagare di più e quindi è stato all'aperto anziché giù, nelle stive) almeno per questa volta, si è salvato.

La mattina del penultimo giorno mi attende poi una sorpresa, alla stazione della S-Bahn di Koepenick: la linea è TOTALMENTE sospesa per lavori nelle prossime 48 ore.

E se sono perplessi questi abitanti del quartiere, intenti ad interpretare il cartello dello Schienenersatzverkehr, del “servizio sostitutivo di bus”, potete immaginare il mio di stato d'animo, decisamente molto più vicino a quello di Totò e Peppino divisi a Berlino, che a quello del globe-trotter up to date per il quale vorrei farmi passare.

Siccome però sono pervicace la sorte mi premia e, una volta raggiunta comunque Potsdamer Platz, riesco a vedere il film probabilmente più interessante in assoluto del festival.

Si intitola Wu Tu (My Land) di Fan Jian ed è presentato nella sezione Panorama Dokumente.

Girato nell'arco di più di 10 anni, Wu Tu racconta le peripezie di una piccola famiglia cinese inurbata dalle campagne a Pechino e ora obbligata da una speculazione edilizia a lasciare il fazzoletto di terra che coltiva, ormai assediato com'è da ogni parte da enormi, incombenti palazzoni.

Nel film c'è tutto, e tutto è raccontato con una grazia che colpisce. C'è il desiderio di giustizia di questo capofamiglia minuscolo ed esile, ma inflessibile contro le ruspe, quanto nell'opporsi ai violenti prevaricatori, spalleggiati da corrotti esponenti del governo locale.

Nulla, dal taglio della corrente elettrica, della fornitura dell'acqua e naturalmente persino il vuoto sempre maggiore che gli si fa intorno, lo convincono a desistere. Ormai intorno a lui c'è una specie di no man's land da guerra nucleare, eppure la famigliola tra le lacrime della nonna e la dignitosa resistenza della giovane moglie, lo sguardo sconsolato del nonno e l'innocente allegria della giovanissima figlioletta resiste. Resiste fino alla fine. E sono bellissime le immagini della capanna nel buio illuminata solo dalle candele, mentre sullo sfondo esplodono i fuochi d'artificio del capodanno cinese. Struggente lo sforzo del padre di non piangere mentre insegna alla figlia a piantare i pomodori, da commuoversi fino alle lacrime le sequenze del viaggio dei nostri verso la campagna per far nascere in maniera più economica una nuova bambina (farla nascere a Pechino costerebbe loro l'equivalente di ben sei mesi di duro lavoro): il segno di una speranza che si rinnova, che non muore, che li obbliga ad andare avanti.

Andare avanti è quello che dobbiamo fare. E non importa quanto sia difficile o scorante o complicato.

E all'uscita ci accoglie uno sguardo che non avevamo ancora colto nella vetrina di un globalmente omologato venditore di ciambelle, o ci stupisce l'allegria contagiosa di questo semplicissimo bio-bar aperto proprio davanti al cinema Arsenal, una vera e propria barricata che “combatte da dentro” la battaglia contro le multinazionali dell'immagine e del “gusto” stile SONY CENTER.

E  ancora ci piace aprire il diaframma a f 1.8 e puntare il nostro Nikkor fondo-di-bottiglia verso l'orizzonte trasformando - in questa notte - le fredde facciate di ferro e cemento in una piacevole quanto inaspettata composizione astratta, stile titoli di testa firmati Linda M. Bass per Crash - Contatto fisico.

La routine intorno a Potsdamer Platz continua. Continua in questi palazzi sezionati come in La vita, istruzioni per l'uso di Georges Perec.

Continua nell'atrio hopperiano dell'Hyatt, ora che tutta la colorata fauna del cinema è scomparsa di colpo.

Continua nel surreale invito a riposare riprodotto sullo schienale di questa panchina nel tempio assolutamente adrenalinico ed ansiogeno dell'acquisto compulsivo, che rappresenta questo mall più newyorkese che europeo (aveva davvero torto il regista Bela Tarr a rifiutare qualche anno fa la proiezione del suo film in una sala del Cinestar, ritenendo assurdo accostare la sua opera a questo tripudio di merci?)

Diamo l'addio allora a questa edizione con due ritratti del (verso il) futuro molto molto lontani tra loro, sebbene orientali entrambi.

Quello di Johnny Ma, sguardo rivolto al domani, autore di Lao Shi (Old Stone) un efficace, cinico, verisimile rapporto antropologico e sociale dalla Cina di oggi, nelle smaglianti vesti di un falso thriller/action movie, che ha al suo centro un guidatore di taxi.

E quello del giovanissimo Daichi Sugimoto (che in questa immagine si diverte con la sua traduttrice durante il Q&A finale in sala dopo la proiezione del suo film), autore “totale”, dalla sceneggiatura alla regia passando per le riprese, l'interpretazione e il montaggio, di Aru Michi (A Road) film di formazione, che racconta elegiacamente (facendo recitare davvero sua madre e i propri amici) la propria esperienza personale nel momento della scelta di frequentare in Giappone un'accademia cinematografica.

Fare film è una scelta di vita. Lo sapevamo. E tuttavia è divertente sentirlo ammettere ad una domanda sulle motivazioni della sua ispirazione: “Beh... in fondo l'ho fatto perché occupandomi di cinema ed essendomi appena laureato... avevo molto, molto tempo libero...”.

E questo tempo non è stato “libero”solo per lui. Attraverso il suo film,  Sugimoto ha liberato anche il nostro di tempo.

Un'esperienza leggera e fortunata che purtroppo ULTIMAMENTE al cinema non ci capita spesso di vivere.