Forum

Barrage di Laura Schroeder

focus top image

È diventato ormai una sorta di luogo comune sociologico parlare della crisi dei ruoli paterni, della scomparsa della legge che regolerebbe il vivere sociale, e di conseguenza dell’indistinzione tra le generazioni – adolescenze sempre più precoci e poi prolungate fino a quasi non finire mai. È un luogo comune sociologizzante appunto, che però come spesso accade con i luoghi comuni, pur nei suoi limiti, prova tuttavia a nominare un processo che è reale: quello che la psicoanalisi chiama “crisi del simbolico”. La parola non ha più effetti sulla realtà perché colui che era demandato a garantirne i significati non c’è più o non lo si crede più come fonte d’autorità. Il cinema degli ultimi anni ne ha pescato a piene mani per i propri oggetti narrativi, ad esempio mostrandone le ripercussioni nelle relazioni famigliari o nelle storie di formazione adolescenziale. Divenendo sempre più inafferrabile il percorso di accesso all’adultità, il genere del “romanzo di formazione” o del coming-of-age come spesso lo si chiama nel cinema americano, è tornato a essere di grande attualità (tra i moltissimi esempi noti degli ultimi anni Boyhood, La vie d’Adèle, Bande de filles e recentemente Moonlight).

Tuttavia gli sguardi gettati sul disordine – e questo era già chiaro col cinema noir degli anni Quaranta – finiscono spesso, magari un po’ inconsciamente, per mostrare la necessità di un ritorno all’ordine. Finiscono cioè per avere quel retrogusto reazionario di cui scrive Slavoj Žižek quando nel discorso ideologico contemporaneo ritorna a farsi largo una nostalgia dell’Edipo e una voglia di ri-abbracciare posizioni neo-patriarcali a fronte di una crisi dei modelli maschili. È allora tanto più interessante, anche e soprattutto come antidoto rispetto a questa atmosfera da “bisogno di reazione” vedere un film che approccia questo tema unicamente da un punto di vista femminile. Non solo perché la regista è Laura Schroeder, ma anche perché Barrage, passato ieri nella sezione Forum della Berlinale, è un film dove si confrontano tre generazioni di donne in un universo famigliare dove non esistono padri, fratelli e mariti. Dove cioè non esistono uomini.

Alba (Thémis Pauwels) ragazzina pre-adolescente che fa tornei di tennis agonistici è stata cresciuta dalla nonna Elisabeth (Isabelle Huppert), dato che la madre Catherine (Lolita Chammah) che l’ha avuta da giovanissima non si era dimostrata in grado di crescerla. Non si capisce se si sia trattato di un problema di dipendenza, una depressione post-parto o cos’altro: quello che però sappiamo è che Catherine non ha assunto il ruolo di madre, e quando dopo dieci anni ritorna per vedere una ormai cresciutissima Alba, non vuole necessariamente prendere il posto della madre, quanto semplicemente poterla vedere e stare con lei. In Barrage non vediamo dei ruoli famigliari pienamente distinti: Catherine sembra essere ancora una figlia quando è vicino ad Elisabeth – che a sua volta si atteggia a madre di Alba – mentre accanto a sua figlia si atteggia da complice quasi come se fosse una coetanea (usa gli stessi giochi di parole, gioca con lei, si mette a ballare la canzone pop “Don’t Let Me Down” di Daya come se fosse un’adolescente etc.). Tra le tre insomma è come se ci fosse una dialettica di indistinzione narcisista come è evidente dal fatto che Alba e Catherine si scambiano i vestiti o parlano come delle coetanee, o anche dal fatto che Chaterine e Elisabeth si somiglino così tanto da poter quasi essere scambiate l’una con l’altra (e per altro l’attrice Lolita Chammah è realmente la figlia di Isabelle Huppert).

Spesso però quando c’è un deficit del registro simbolico, come in questi casi, si assiste a un ritorno del reale: infatti il film è pieno di medicinali, psicofarmaci, ferite, sangue, morti di animali, esercizi fisici che devono essere compiuti in continuazione fino allo sfinimento, come spesso fa Alba provando a stare seduta senza alcun appoggio per il tempo più lungo possibile. È allora dunque l’universo senza uomini di questa paradossale famiglia un universo senza Legge? È un universo destinato inevitabilmente al caos e alla patologia, e al ritorno del reale nel corpo? Barrage – ed è proprio questo che lo rende un film pienamente riuscito – sembra non prendere una posizione definitiva su questo punto. Nonostante Catherine sembri ripiombare nella dipendenza, nonostante Alba sembri voler fuggire via sia dalla nonna sia dalla madre, un legame sembra tuttavia riuscire a esistere tra le tre, anche senza la Legge di un padre. La Schroeder stringe l’inquadratura in un formato 1:1.33 e a prendere il centro della scena è la dialettica tra i tre personaggi più che la loro collocazione in un contesto (che è al cinema il segno dell’effettività di un universo simbolico); eppure anche nella forma di uno squilibrio una famiglia – ma forse sarebbe meglio chiamarla una collettività – riesce a “farsi corpo”. Il simbolico, si potrebbe dire, non ha bisogno di un uomo. Nella casa dove Catherine a Alba fuggono per qualche giorno questo è allegorizzato da una testa di cinghiale impagliato, sguardo onnipresente delle vicende delle tre protagoniste che incombe dall’alto ma che poi Alba fa cadere per sbaglio per terra. Al che la madre le risponde: “lascialo lì: così non potrà cadere ancora più in basso”. La legge la possiamo fare esistere insomma, anche se non è lassù in alto, ma se è caduta per terra. Che poi, se vogliamo, è la grande lezione della psicoanalisi: la legge può esistere anche oltre l’ordine del patriarcato, anche oltre l’autorità. E anzi, forse, è pure meglio che sia così