Concorso

Ana, mon amour di Călin Peter Netzer

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In una dimensione psicanalitica della relazione affettiva la presenza dell’altro colma quello che chiamiamo bisogno ma non è sufficiente a soddisfare il desiderio, perché quest’ultimo, come diceva Freud, cerca invece il suo appagamento in una percezione allucinatoria riconducibile all’universo simbolico del sogno. E allora come si può capire cosa cerchiamo in una relazione di coppia? Su che terreno agiamo quando un sentimento si trasforma in un rapporto? Quale tipo di appagamento cerchiamo di soddisfare?

Ana, mon amour, l’ultimo film di Călin Peter Netzer – già vincitore dell’Orso d’oro alla Berlinale 2013 con Il caso Kerenes – si chiede esattamente questo. E anche se non tenta di dare risposte né di fornire soluzioni, procede sviscerando una relazione di coppia attraverso un’anatomia minuziosa di tutti gli elementi che la compongono e che stanno al suo interno (oltre a lui e lei).

Toma e Ana si incontrano, si innamorano e cominciano a frequentarsi, studiano letteratura all’università di Bucarest e abitano insieme in uno studentato. Entrambi sono figli unici e hanno un rapporto difficile con la famiglia, ma lei soffre anche di problemi neurologici e ha frequenti attacchi di panico. Questo fa sì che Toma si occupi di lei, dei disturbi che la tormentano e di portare avanti la loro relazione nonostante tutto. I due si sposano, hanno un bambino e lentamente Ana comincia a stare meglio. Trova un lavoro, si libera dalla dipendenza per le benzodiazepine e supera i traumi e le paure del passato. Allora qualcosa si rompe nel rapporto con Toma: adesso che lui non è più il suo appoggio, il suo infermiere, il suo angelo custode, sembra venire meno, da entrambe le parti, anche il sentimento. Tutto il film, nel quale intreccio e fabula non coincidono e il racconto procede mischiando presente, passato e futuro, è anche una lunga seduta di psicoanalisi: quella di Toma che, seduto sul divano dell’analista esamina il complesso rapporto con Ana confondendo sogno, realtà, ricordi ed eventi traumatici senza distinguere fra realtà e immaginazione.

Netzer indaga un rapporto di coppia come se stesse approfondendo uno studio clinico. Nel corso di un lasso di tempo non specificato – ipotizziamo fra i cinque e gli otto anni – Toma e Ana, in questo senso, sono veri e propri oggetti, sia in senso psicanalitico in quanto attori della relazione, che come fenomeni da studiare. I loro corpi, prima che i loro intelletti, sono esposti su un tavolo operatorio e per tutta la durata del film li vediamo entrare e uscire dagli studi di diversi dottori. Non solo l’analista di Toma, ma anche neurologi, ginecologi, medici di pronto soccorso che studiano, analizzano, emettono diagnosi fanno in modo che Netzer possa filmare il corpo dei suoi protagonisti da molto vicino, come li stesse a sua volta dissezionando. La dimensione carnale e sessuale, mentre il film procede, si posiziona però su un piano sempre diverso. Nel finale, quando i due sono a letto dopo aver fatto sesso – per esempio – e la loro nudità esprime una freddezza glaciale e la prossemica fra loro è giocata sulla distanza, il regista inserisce un flashback che ce li mostra anni prima, sempre nudi, sempre a letto e sempre dopo la fine di un amplesso mentre si toccano, si accarezzano e scherzano fra loro. È forse nello spazio fra queste due immagini che risiede il senso dell’operazione di Netzer. 

Toma richiama alla mente, attraverso un’attività onirica (anche se non è esplicito che si tratti di un sogno), una riproduzione allucinatoria che appartiene al passato, ovvero – come dice sempre Freud definendo il concetto di desiderio – «al ricordo di gratificazioni già sperimentate». La distinzione fra bisogno e desiderio è dunque alla base delle azioni del protagonista per tutto il film. E da lì derivano comportamenti, azioni, relazioni e ossessioni. Nella sua incapacità di mettere a fuoco le proprie necessità all’interno del rapporto Toma perde di vista anche la natura dei suoi sentimenti. L’amore in questo senso non diventa godimento, condivisione, passione o attrazione, ma una specie di missione da portare a termine. L’urgenza di salvare Ana dai problemi che la affliggono non dà solo vita a un transfert paterno enorme e problematico – la sequenza in cui lei, quasi agonizzante, se la fa addosso e lui la pulisce e la riveste prima di portarla all’ospedale è di una potenza straordinaria – ma fa sì che si renda evidente, anche ai due protagonisti, come il sentimento si sia trasformato in ossessione e come attaccamento, assuefazione e dipendenza facciano parte della relazione tanto quanto l’amore.

Perché spesso sono proprio i gesti concreti e le azioni materiali che tengono in piedi il ménage di coppia. Netzer sembra voglia dirci di come spesso, proprio come si fa con i sogni, ci sia bisogno di trasformare l’amore in una materia tangibile. In modo che poterlo toccare, vedere, ricondurre a una dimensione spaziale ci avverta della sua esistenza. Ma è proprio in quel momento, quando assume i tratti di qualcosa d’altro, che comincia a sfuggire e che ha bisogno di essere rimpiazzato, traslato su altri terreni, persino chiamato in un altro modo, è proprio in quel momento che smette di essere ciò che è. Anche se ormai non importa più perché l’ostinazione di approppriarsene, di afferrarlo e tenerlo con sé al di là di tutto prevale. E come succede a Toma, una volta incontrato e coltivato, che sia reale o soltanto immaginato, un oggetto così grande, può ossessionare per una vita intera.