Fuori Concorso

Trainspotting 2 di Danny Boyle

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A rivederlo oggi, per la prima volta da quando è uscito nel 1996, Trainspotting è un film di bruttezza epocale. Non che all'epoca fossi impazzito; anzi, a dirla tutta, non ne ricordavo molto, se non quelle due o tre cose che poi ricordano tutti: il cesso più lurido di Scozia, la morte della bambina e le allucinazioni relative di Renton, lui che dice "ahi" quando l'infermiera gli fa il prelievo per il test HIV.

Se la cosa della neonata è disturbante e di grana grossa ma efficace, e quella del prelievo una folata d'ironia in un film invece sempre acidamente sardonico, la prima era e rimane il simbolo della grevità e della ruffianeria dell'opera seconda di Danny Boyle. Regista che, in vent'anni di carriera, a quelle due etichette è rimasto (quasi) sempre fedelmente attaccato: anche in Trainspotting 2.

Nel corso di questi vent'anni di acqua sotto i ponti (di Amsterdam, dove s'era nascosto Renton) ne è passata tanta, tanta come l'eroina nelle vene di Spud, che è quello che ancora sta cercando di liberarsi della scimmia; come la cocaina nelle narici di Sick Boy che ora però si fa chiamare semplicemente Simon. Vent'anni che Begbie ha trascorso in carcere: carcere da cui, guarda un po', evade proprio quando Renton torna a Edimburgo per motivi che scopriremo solo strada facendo. E vent'anni di acqua sotto i ponti hanno lasciato un segno anche nello stile di Boyle, che come un ciottolo di fiume si è magari sgrezzato un po', ha acquistato un nuovo profilo, ma che è comunque è rimasto lo stesso, con lo stesso peso specifico, con la stessa composizione fisica e chimica.

Quindi sì, un po' di grevità in meno, un po' di squallore ostentato in meno (in fondo in vent'anni è cambiata anche Edimburgo, e il regista ci tiene a mostrarlo), ma in compenso tanta ruffianeria, come allora e più di allora. Perché allora Boyle ancora non aveva preso a utilizzare l'artificio di proiettare immagini su altre superfici all'interno dell'inquadratura: in Steve Jobs il missile sul muro, qui qualcos'altro sulle portiere di un taxi che corre in strada, o i numeri che s'illuminano progressivamente sulla parete esterna di un palazzaccio di periferia per far capire che un ascensore sta salendo. Perché la parola chiave del film, declinata nel più ruffiano dei modi, è "nostalgia", e allora tutto in T2 è una strizzata d'occhio, un rimando, un richiamo, un buffetto al pubblico che così riconosce quel posto o quel gesto o quell'espressione.

In una e in una sola occasione questo disseminare il film di piccoli inneschi che permettono il subitaneo viaggio nel tempo, funziona bene. L'unica in cui il giochino non viene mascherato sotto la copertina sottile della nonchalance, ma è anzi messo in primo, primissimo piano, in bella e chiara evidenza tanto da occupare tutto lo spazio dell'inquadratura: è quando Renton, nella sua stanzetta di ragazzo, appoggia la puntina del giradischi sul piatto, e tu sai, lo sai che sta per partire Lust for life, e fai a tempo di sentirne mezza, un quarto di battuta, prima che Renton sollevi in fretta e furia la puntina. Perché per quel viaggio indietro nel tempo lì, lui, ancora non è pronto.

Se T1 era già il film dell'anarchia nichilista da ostentare a ogni cambio di magliettina o di sneakers di Renton, il film per i ragazzini che attorno ai vent'anni giocavano a fare gli alternativi o i punkabbestia per poi tornate a dormire comodi tra le costose e fresche lenzuola delle loro dimore alto-borghesi, è pur vero che un valore storico ce l'ha, nel suo tentativo di raccontare con taglio e punto di vista tutti nuovi le desolazioni dell'Inghilterra tardo tatcheriana al centro di tanto cinema inglese, e anche la droga e la tossicodipendenza fuori dai moralismi.

A T2 non è dato invece neanche quello: gli rimane il giochino di continuare a fare il maledetto, mentre invece tutto sta diventando più comune, più normale, più vecchio. Mentre Renton e Simon, in fondo, vogliono solo finalmente sistemarsi, Begbie vuole solo vendicarsi, e il povero Spud (da sempre il personaggio più interessante) vuole in qualche modo riscattarsi. Perché lui le lenzuola fresche non le ha mai avute (basta ricordarsi quel che gli accadeva in T1), figuriamoci poi quelle costose.

Alla fine è lui, l'eroe di T2. Quello che trova la sua voce e la forza debole per cambiare le cose. Cose che cambiano perché tutto rimanga com'era: ruffiano, come l'artificio di tramutare Spud in una sorta di alter ego di Welsh, o di Boyle. Nella persona capace di raccontare gli abissi di squallore e di dargli la forma giusta per farsi storia capace di mettere Renton e Simon di fronte ai loro fallimenti, alle loro illusioni, al precipitato disastroso (più per gli altri che per loro) di azioni e malefatte che hanno commesso.

Già, perché la nostalgia di Danny Boyle, nonostante le strisce di coca, i ricatti porno, la pera celebrativa, gli strap-on, le truffe e tutto il resto, è anche una nostalgia del contrappasso. La nostalgia di chi lascia in braghe di tela, più o meno, quelli che la possibilità di "scegliere la vita", anche a modo loro, l'hanno gettata nel cesso; la nostalgia di chi premia la furbizia a fin di bene della prostituta bulgara che sparisce con i soldi, senza nemmeno lasciare una singola mazzetta in un armadietto qualsiasi e forse spezzare quel poco di cuore rimasto a Rent e Simon.

Perché lei non è "una cattiva persona", come concludeva Renton in T1 di fronte al suo gesto finale: lei è una mamma, e a casa ha una figlia che l'aspetta, da crescere come meglio può...