Concorso

Alcarràs di Carla Simón

focus top image

Alcarràs è un villaggio della Catalogna profonda dove, protette da una corona di colline punteggiate di calanchi, si estendondo le coltivazioni di pesche della famiglia Solé, una coppia, Quimet e Dolors, tre figli loro, Roger, Mariona e Iris, ma anche i nipotini Pere e Pau, sempre tra i piedi; fratelli, sorelle, zie,  che vanno e vengono e contribuiscono al lavoro di raccolta coi braccianti africani reclutati in parrocchia, e il nonno, Rogelio, depositario di un contratto non scritto con l’antico proprietario del fondo, il signor Pinyol, che si era sdebitato per essere stato nascosto in salvo durante la guerra. Ma la nuova generazione dei proprietari non ne vuol sapere di un accordo verbale vecchio di decenni, e punta a convertire i terreni in campi di pannelli fotovoltaici, estirpando i pescheti, approfittando anche del fatto che le leggi del mercato e quelle dell’Unione Europea rendono sempre meno redditizia la coltivazione della frutta.

Nella pratica del cinema, non solo di quello documentario, conoscere la dimensione intima, quotidiana, di una realtà, è già metà dell’opera. Carla Simón, nel mettere in scena le tensioni tra “il vecchio e il nuovo” di questi (nuovi) anni ’20, fa tesoro della confidenza con l’ambiente rurale in cui è cresciuta, con i tempi, con i gesti, con la filosofia pragmatica e non scritta che da secoli sta dietro chi si prende cura della terra.

E però non cede mai alla mistica del mondo contadino, non adotta una prospettiva estetizzante, non si abbandona a slanci lirici; il che non vuol dire che rinunci a essere autenticamente poetica. E ci arriva articolando la narrazione, stratificando i punti di vista, e lavorando con quelli che lei stessa ha definito “attori naturali” (nel tentativo di precisare la definizione di “non professionisti”). Forse non è solo quello che normalmente chiamiamo direzione di attori, il lavoro che fa Carla Simón, è qualcosa di più, che si nutre appunto di un rapporto privato, diretto, coi luoghi e con le situazioni, e quindi non solo saper indicare cosa fare o cosa dire, ma anche saper cogliere, documentare, le emozioni che increspano gli sguardi, i silenzi che affollano le stanze di una casa colonica, alla controra, in un giorno d’estate.

Nel precedente Estate 1993, anche per ragioni autobiografiche, il punto di vista adottato era il più possibile vicino a quello della piccola protagonista, Frida, ma con Alcarràs il discorso si fa naturalmente polifonico: ognuna delle generazioni ha per forza di cose uno sguardo diverso sul presente, un rapporto differente con la terra. Per i bambini, dai cui giochi prende il via il film, lo sguardo è quello ancora pieno di incanto su un mondo che coesiste (spesso senza controcampo) in parallelo a quello degli adulti; per gli adolescenti sono in gioco scelte serie, sono all’ordine del giorno gli accordi e disaccordi naturali, senza eccessi di dramma, con gli adulti; per questi ultimi, soprattutto Quimet e Dolors, è ingombrante la consapevolezza di dovere andare avanti per rispetto verso chi li ha preceduti e il compito gravoso di un confronto diretto con la crisi e con chi vorrebbe tramutare radicalmente lo scenario produttivo e il paesaggio naturale. Per chi li ha preceduti, il nonno Rogelio, che talvolta si aggira come se fosse già un fantasma, c’è tutta la difficoltà di chi si rende conto, a fine corsa, di non capire più dove sta andando il mondo, non riconoscere più i valori che lo avevano retto.

Ma Alcarràs non è solo lavoro con gli attori e sulle situazioni, la regista catalana non rinuncia certo a passaggi e richiami più formali: almeno in tre istanti sospende il tempo con una ripresa laterale dei personaggi che guardano fuori campo, una postura spettatoriale intensa, attiva, quasi come in uno di quei manifesti (socialisti, se non sovietici) in cui le figure guardano al radioso futuro di un piano quinquennale, e però tutte le volte il controcampo è in direzione di un futuro respingente, che sostituisce l’artificiale al naturale; e ci offre in ultima istanza un totale aereo, uno scenario diviso letteralmente in due, in cui assistiamo all’avanzata ineluttabile della macchina del Capitale contro la resistenza tenace e pacifica dei coltivatori: a noi spettatori il compito di essere degno controcampo di quell’inquadratura.