Concorso

L’Été dérnier di Chaterine Breillat

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L’estasi del desiderio. Interessa questo a Chaterine Breillat che torna a Cannes con L’Été dérnier, remake - o personale reinterpretazione - del film danese Dronningen (Queen of Hearts) di May el-Toukhy, di cui accetta la regia su invito di Saïd Ben Saïd. Torna così dietro la macchina da presa dopo dieci anni dal suo ultimo film, intervenendo profondamente sia sulla sceneggiatura che sulla messa in scena del film d’origine. Breillat riconduce infatti il soggetto al proprio cinema, alla centralità del desiderio e delle relazioni tra i generi da sempre raccontati attraverso la chiave di una sessualità perturbata e disturbante.

Tratti che l’hanno resa figura riconoscibile e anticonformista in un’epoca in cui filmare i corpi e il sesso come faceva lei era certo una forte affermazione di personalità artistica e una presa di posizione politica - sopratutto per una donna. Qui li riprende però tramite una sorta di sublimazione attraverso cui insegue la rappresentazione mistica dei corpi nell’atto del godimento come liberazione suprema.

La relazione che improvvisamente esplode legando l’avvocata minorile Anne (Léa Drucker) al suo figliastro adolescente Théo (Samuel Kircher), viene messa in scena da Breillat in un’atmosfera estiva che permea ogni immagine di una luce avvolgente: una famiglia borghese, un bella casa fuori città, un giardino, due bambine piccole (adottate dalla coppia di mezza età) piene di energia e di vita. E poi, improvvisamente, l’irruzione della figura del problematico Théo che entra in scena con piglio provocatorio e un corpo acerbo. I ritmi non sono quelli del thriller e anche la tensione (nonostante i dichiarati riferimenti a Hitchcock) svanisce subito nella meccanicità della sceneggiatura e in dialoghi artefatti e quasi ampollosi mentre la regia cerca in un gioco di prossimità e allontanamento dello sguardo un dialogo tra la dimensione estatica del desiderio e il mondo.

Cosi il film prende forma tra  piani ravvicinassimi che indagano i volti dei due amanti rifuggendo ogni verismo e ricercando in essi, molto più che nei loro corpi, la purezza mistica del piacere; e piani in cui invece, riguadagnando distanza, lo spettatore dovrebbe trovare gli elementi necessari a credere al coinvolgimento dei due, al rischio che si prendono, all’abbandono reciproco, alla riscoperta di una leggerezza mai avuta per Anne, alla scoperta dell’amore per Théo. Trova invece l’insistente presenza di oggetti dal simbolismo tanto esplicito e banale (il quadro della donna nuda sopra il letto della camera, il portachiavi a forma di cuore, la chiave tenuta in mano da Anne nell’ultimo amplesso, il riverbero luminoso della fede nuziale che si trasforma in stella) da diventare semplicemente reiterate forzature.

L’Été dérnier è un film ambizioso, sicuramente benefico per la sua regista e certo coerente con il suo cinema e con quella volontà programmatica di smantellare l’idea che l’unico modo di filmare il sesso sia quello dell’oggettivazione del corpo femminile da parte dello sguardo maschile. Una messa in discussione però che si smonta qui nella sua stessa rigida e deliberata impostazione.