Concorso

Firebrand di Karim Aïnouz

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Firebrand, tizzone ardente, una vita ardente, una vita da regina. Una vita invisibile, pur essendo un personaggio in vista. Succede magari più spesso a chi si muove tra musei, libri e documenti, forse oggi è ancora più di tendenza per la diffusione dell’ideologia woke, ma è assolutamente lecito domandarsi come fosse davvero la vita delle donne della nobiltà e dell’aristocrazia europea, quelle di cui incrociamo lo sguardo nelle gallerie di ritratti, spesso spose bambine, pedine viventi di accordi tra corti e famiglie, sempre istruite fin da piccole a ricoprire un ruolo. È legittimo immaginare tutto questo sotto le vernici smaglianti dei ritratti ufficiali, oltre il protocollo di corte, oltre i gioielli e le variazioni della moda, oltre la storia ufficiale, quella al maschile, quella dove il genitivo, figlia di, moglie di, relega quelle che a tutti gli effetti furono delle protagoniste a una subalternità sintattica e quindi sostanziale. Non è una storia nuova quella di Enrico VIII, della sua smania di mettere al mondo eredi maschi (“I was hoping for a spair”, “speravo di averne uno di scorta” dirà a un certo punto), e delle sei mogli che si sono alternate al suo fianco, e Karim Aïnouz lo sa; però è nuovo, anche se rischioso proprio per la possibilità di essere scambiato per modaiolo, il punto di vista da cui viene raccontata.

Una narratrice, una voice-over, si scoprirà poi a chi appartenga, introduce lo spettatore nel cuore della corte britannica, dove Catherine Parr (Alicia Vikander), sesta e ultima consorte di Enrico VIII (Jude Law), è reggente durante l’assenza del re, impegnato in imprese militari in Francia. Catherine, che a sua volta è al terzo matrimonio, non ha mai fatto mistero delle proprie simpatie per la Riforma protestante, ha anche pubblicato un libro di preghiere; ma sono un segreto, e tali devono rimanere, la sua simpatia e il suo sostegno verso le posizioni dei riformatori radicali, condotti da Anne Askew (Erin Doherty), convinta oppositrice di alcuni dogmi del cattolicesimo e del latino usato per i testi sacri e per la liturgia, ferma assertrice di un rapporto diretto con le scritture, così come si era cominciato a praticare, e lo avevano fatto soprattutto le donne, attraverso la diffusione della devotio moderna: un rapporto immediato, privato, con il divino.

Il privato. The Private Life of Henry VIII, era il titolo del film del 1933, diretto da Alexander Korda, dove il monarca era interpretato da un Charles Laughton estremamente fedele all’iconografia ufficiale e gigionissimo; ma fin dal titolo evidenziava il fatto che il paradosso di tutta la vicenda di Enrico è che la sua vita privata non sia mai stata tale, o meglio, il gesto stesso di ribellarsi a Roma per una questione intima come la relazione coniugale con Caterina d’Aragona (la prima Caterina di una serie) sbatteva sotto gli occhi del mondo intero il proprio privato, le proprie esigenze riproduttive, puramente patriarcali, spacciate per ragion di stato (non fosse bastata la moda, per noi oggi piuttosto imbarazzante, di lasciar intuire le private parts attraverso l’uso dell’astuccio penico in bella vista).

Così, la vita privata di Catherine Parr, nel film di Aïnouz, è soggetta al vaglio, al controllo, allo spionaggio, allo sguardo di soggetti della corte, lord, confessori, giullari, medici, cardinali. Solo nel momento in cui la giovane regina incontra la Askew, in un bosco legato a un santuario dove gli uomini non possono accedere, la corda si allenta, anche solo per poco, e il controllo si fa meno pressante. In quel bosco Anne e le sue compagne, infervorate dalla parola del Signore, vivono qualcosa che per certi versi Catherine sembra invidiare, qualcosa di impalpabile, una luce stampata sul volto di Anne in un’immagine che diverrà ricorrente: Catherine e Anne, come Eurídice e Guída Guzmão, sognavano una rivoluzione. Vissuta in due modi diversi, pericolosissima per la prima, fatale per la seconda. Perché Firebrand, pur nell’apparato sfarzoso e costoso, nel suo intrecciarsi con la Storia da manuale, è un film molto personale, come lo era A vida invisível, un film in cui, di nuovo, Aïnouz proietta la propria condizione di figlio abbandonato dal padre, riverberandola nei dialoghi delle figlie di Enrico, Mary (Patsy Ferran) e Elizabeth (Junia Rees) con il piccolo Edoardo e con la stessa Catherine, nel terrore che si dipinge sui loro occhi di fronte alla violenza verbale e fisica di cui è capace. La famiglia come origine e repositorio di ogni genere di violenza. Una violenza che lascia tracce indelebili sul corpo e nello spirito di Catherine, sospettata di tradimento e di eresia dal marito e in sostanza da tutto il seguito, e guasta ogni possibilità di riconciliazione. “Dimmi che mi ami”, “Amo il mio Re”. Catherine non ama più quella persona, si sforza semplicemente di mostrarsi astrattamente fedele al principio della monarchia.

E d’altra parte Enrico – dimenticate il Jude Law che avete in mente per un istante – diventa il corpo impresentabile e putrescente della norma patriarcale che ha regolato l’Occidente, un Barbablu che come il blue-cheese è divorato dai vermi, conseguenza estrema della gotta (simili ma al tempo stesso diversi dai vermi che il Menocchio di Carlo Ginzburg vedeva crearsi dal nulla, ma è un’altra storia di Riforma). Un corpo la cui decadenza diventa il metro e il banco finale del conflitto tra marito e moglie, tra maschile e femminile; un corpo di cui Aïnouz si permette di immaginare la fine, o meglio, di farla immaginare alla sua narratrice, che con il ricordo di quell’orrore regnerà per quasi cinquant’anni.