Fuori concorso

Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese

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Nel film spartiacque della sua carriera, Gangs of New York, al culmine dello scontro tra le bande rivali degli American Natives e dei cattolici irlandesi Dead Rabbits, Scorsese inseriva il duello finale fra Bill the Butcher e Amsterdam Vallon all’interno del quadro più ampio della rivolta della popolazione di Manhattan contro la coscrizione obbligatoria per la Guerra civile: la rivalità fra i due personaggi, entrambi padroni dei Five Points di Manhattan, finiva inghiottita dalla nebbia delle esplosioni causate dall’attacco dell’esercito al quartiere, smorzando la potenza mitica del dramma e facendo prevalere la grande storia sulle piccole vicende degli eroi cinematografici.

Killers of the Flower Moon, nonostante le tre ore e venti minuti di durata, il budget milionario e l’apparenza di un racconto epico sulla natura del capitalismo americano, nasce forse da quel momento paradossale di Gangs of New York, il film con cui Scorsese ha rinegoziato al ribasso il rapporto con il sistema hollywoodiano, rinunciando in parte all’aggressività e alla sperimentazione visiva e aderendo mai del tutto convinto alle regole dei generi. Il suo ultimo film è stranamente (o forse no, a questo punto) compassato, fluviale ma non impetuoso, anch'esso smorzato nel suo slancio drammatico, quasi ipnotico nel tono sommesso, con le musiche rock e blues del collaboratore di sempre Robbie Robertson che non invadono mai il racconto - non ne strappano il ritmo con quella maniera impareggiabile che tutti hanno imparato a fare da Scorsese - ma scorrono sottili sotto le immagini, come un fiume lento che detta il passo inesorabile della trama.

Le vicende sono note: tratto dall’omonimo romanzo inchiesta di David Grann (in Italia edito da Corbaccio con il titolo Gli assassini della Terra Rossa: Affari, petrolio, omicidi e la nascita dell'FBI. Una storia di frontiera), il film è ambientato all’inizio degli anni ’20 del ’900 nella riserva indiana della tribù Osage, Oklahoma nord-orientale, dove una serie di omicidi colpisce la locale comunità di nativi, tra le più ricche al mondo grazie alla scoperta di giacimenti di petrolio. In questo mondo al contrario, dove i nativi si sono arricchiti e i bianchi fanno loro da servi, il giovane Ernest Burkhart (Leonardo Di Caprio), reduce dalla Grande guerra (ancora un reduce, come Trevis Bickle, come il detective di Shutter Island…), comincia a lavorare come tirapiedi per lo zio William Hale (Robert De Niro), un grande proprietario terriero che vorrebbe mettere le mani sui soldi della comunità Osage. Un po’ per amore e un po’ su consiglio dello zio, Ernest sposa la nativa Mollie (Lily Gladstone), figlia di una matriarca arricchitasi con il petrolio, e quasi senza accorgersene, obbedendo a ordini che non gli vengono nemmeno impartiti, diventa complice di una serie di crimini che portano allo sterminio della famiglia di Mollie e avvicinano sempre più Hale, da tutti chiamato «the King», ai possedimenti che agogna. Affetta da diabete come la madre e come molti altri nativi, Mollie si avvia lentamente a morire, togliendo ogni ostacolo a Hale, e si fa emblema ella stessa di una comunità che ha seppellito l’ascia di guerra ed si è integrata nel mondo dei bianchi, spegnendosi lentamente e svanendo dalla storia con quella che nel film tutti chiamano la «malattia che consuma».

Il film è costruito ancora una volta su un triangolo di personaggi, Ernest, William e Mollie, come in passato Toro scatenato, Il colore dei soldi, Cape Fear, L’età dell’innocenza, Casinò, lo stesso Gangs, e allo stesso modo, ancora una volta, il racconto segue due stranieri (Ernest e William) che entrano in un mondo al quale appartengono in parte (per matrimoni mezzosangue o legami d’interesse) e lo vogliono conquistare in modo maldestro. Chi sia il responsabile degli omicidi ci vuole del resto poco a intuirlo e Scorsese sembra perdersi volutamente nello sguardo instupidito dei due protagonisti maschili e in quello narcotizzato di Mollie, che è la forza segreta del suo film, la resistenza degli Osage all’invasione bianca, ma anche la sua arrendevolezza, il suo abbandono alla sconfitta. Come la contessa Olenska, Mollie è straniera del proprio mondo, avvelenata, contaminata, incapace di opporsi a ciò che comprende, e se a lei tocca un destino meno triste, è forse per via del senso di colpa che Scorsese sente nei confronti del suo popolo e della sua storia, dandole in extremis la possibilità di recuperare la sua dignità.

Il fatto è che, a ottant’anni raggiunti, Scorsese è stanco, non ha più la foga del passato (con il quale tra l’altro ha chiuso i conti con The Irishman) e lascia che il suo film si dipani lentamente, raccontando della vicenda degli omicidi dei frammenti interni, a volte buffi, quando non comici, trovando in Di Caprio e soprattutto in De Niro (come se fosse intervenuto in aiuto dell’amico a dare finalmente un senso alle scelte poco comprensibili della seconda parte di carriera) due figure grottesche, un pasticcione che sente la responsabilità del male che ha commesso (e in questo senso figura incredibilmente poco scorsesiana…) e un mostro più stupido che malvagio.

Con uno stile ancora potente ma fattosi sempre più disteso, con primi piani, conversazioni, sguardi, silenzi, passaggi visionari raffreddati, Killers of the Flower Moon tiene incollati senza emozionare mai, privo com’è di scene madri e figlio di un cinema forse influenzato dalla serialità, dove anche i legami forti fra i personaggi (come quello tra Ernest e Mollie, che anche nella perdizione sembrano comunque amarsi) stanno fuori dalle regole del genere (il film non è un western, nonostante l’ambientazione, e nemmeno un gangster movie, per quanto nella seconda parte sia quasi un remake di Quei bravi ragazzi) e nascono da impressioni, non detti, strani e bellissimi momenti di calma (la prima cena fra Ernest e Mollie).

Ancora interessato alle origini comunitarie dell’America e alle prese con un mondo che non conosce, Scorsese affronta la storia alla sola maniera che conosce (scrivendo cioè, con Eric Roth, l’ennesima storia su un branco di cafoni che sa parlare la lingua dei soldi e del sangue) togliendo però il centro al suo stesso racconto e lasciando andare alla deriva l’idea di racconto epico all’americana. L’Osage County del film non è terra di frontiera, non è il paesaggio di un western attraversato e snaturato: è una comunità chiusa con pochissimi legami con l’esterno (e quando nell’ultima parte entra in campo la neonata FBI con il personaggio di Jesse Plemons un mondo fuori dalle regole cade dalle nuvole) che viene occupata non dal denaro (la vera grande rimozione del film, dal momento che se ne parla di continuo e non se ne vede quasi mai), ma dalla violenza sistematica, ripetitiva e ottusa.

Se esiste un’epica americana, come rivela l’incredibile finale in cui Scorsese riesce a fare una sintesi di due suoi maestri classici, John Ford e Orson Welles, questa sta proprio nella trasformazione della storia in racconto popolare, posticcio e un po’ ridicolo. Epica, del resto, alla quale lo stesso cinema di Scorsese appartiene e dalla quale il regista stesso, in modi e forme che non riveliamo, esclude le comunità di nativi di ogni origine e epoca, donando loro, in una scena che chissà quanto volontariamente rimanda al celebre carrello all’indietro in plongée di Tutti gli uomini del presidente (là era la simbolica biblioteca del Congresso, qui una danza popolare ugualmente iconica), quel centro che il suo cinema non vuole più avere.