Lorenzo Rossi

Occupied City di Steve McQueen

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Una delle azioni più complesse che il racconto storico al cinema richiede è quella di mostrare (da autori) e di comprendere (da spettatori) come la Storia permei attraverso gli elementi, i luoghi, le cose, le componenti narrative che compongono il testo filmico: in una parola le immagini. Ed è ancor più difficile farlo in modo puntuale e rigoroso quando, come nel caso di quest’ultima opera di Steve McQueen, lo stile del racconto scelto è quello documentario.

Il regista britannico confeziona un film molto diverso da tutto quello che ha fatto in passato e che forse ha più punti in comune con uno dei suoi ultimi lavori per la tv – Small Axe (BBC One, 2020) – che con il suo cinema più consueto. Occupied City è un viaggio immersivo di oltre quattro ore dentro la città di Amsterdam, un percorso topografico attraverso i quartieri, le strade, gli edifici dove fra il 1940 e il ‘44 si consumarono i fatti più tragici legati all’occupazione nazista dei Paesi Bassi. Ad accompagnare le immagini è la voce off di una narratrice che racconta la storia connessa a ognuno dei luoghi su cui la macchina si sofferma – alcuni dei quali conservano un aspetto immutato nel tempo, altri sono stati completamente riconvertiti e altri ancora sono semplicemente scomparsi – usando le parole del libro su cui il film è basato, “Atlas of an Occupied City, Amsterdam 1940-1945”, della scrittrice Bianca Stigter (anche sceneggiatrice del film). E che raccontano di deportazioni, delazioni, brutali omicidi ma anche di sistemi di sorveglianza, contenzione, lavoro forzato in condizioni disumane e del modo in cui tutto questo ha preso forma

Ne nasce un’opera sorprendente, capace di cogliere e restituire con grande intelligenza il rapporto fra le parole e le immagini e, come si diceva, di dare profondità alla storia anche in termini estetici. L’orizzonte urbano stratificato, espressivo e dialettico che McQueen mette in scena si eleva a luogo della memoria e della riflessione storica. Senza ricorrere a nessuna immagine di found footage – che possa quindi creare una più facile messa in relazione fra passato e presente – il regista costruisce uno spazio di riflessione in senso lanzmanniano dove non solo si intersecano le infinite anime della nostra storia recente, ma dove esiste anche rapporto diretto con la contemporaneità.

Per una coincidenza del tutto fortuita e certamente non programmata McQueen si è trovato a lavorare al film nel periodo in cui Amsterdam e tutti i Paesi Bassi affrontavano il primo lockdown. Quella che filma è quindi una città vuota e spettrale che con ancor più forza restituisce il senso di imprigionamento e angoscia suggerito dalle tante storie drammatiche che le fanno da sfondo.

Il regista si limita a documentare e non prende alcuna posizione morale, etica o politica eppure è impossibile non notare come le immagini delle numerose proteste contro le misure sanitarie che sono mostrate e su cui il montaggio si sofferma a più riprese, creino una fortissima dissonanza con il tema principale del film. L’idea di una Amsterdam “occupata” in senso storico, come città simbolo delle persecuzioni contro gli ebrei e delle deportazioni di massa – veicolate dal ricordo immortale di Anna Frank – si scontra frontalmente con le istanze del partito di chi ha visto nelle misure anti-pandemiche una dittatura sanitaria o una limitazione coercitiva delle libertà personali di stampo autoritario.

Nell’approccio dialettico e per certi versi bulimico che McQueen costruisce – in un film dove l’accumulo di storie e immagini crea un forte impatto sensoriale – questo è un particolare che non può passare inosservato. Sia perché racconta delle potenzialità infinite che il cinema ha di raccontare la realtà anche quando eventi casuali o imprevedibili entrano in contatto con il suo occhio, sia perché permette di spostare e ribaltare continuamente la prospettiva di chi osserva. Facendoci capire che spesso guardare e comprendere per davvero qualcosa che crediamo di conoscere bene come le nostre città o entrare nelle pieghe della storia – anche quella recentissima o ancora da scrivere – è possibile solo attraverso il filtro dato della materia viva delle immagini.