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Emma Dante torna a far migrare le sue storie dal teatro al cinema e, come in Le sorelle Macaluso, in Misericordia parte da un suo spettacolo e lo trasforma per consegnarlo al cinema e a una libertà creativa ed espressiva capaci di renderlo qualcosa di nuovo, di diverso.

Il minimalismo della messa in scena teatrale, totalmente affidata a personaggi che si muovono sulla scena nera e vuota, lascia il posto - nel film - a un paesaggio senza pace che si prende la scena e la pervade. Un ambiente in continuo movimento, disegnato dai limiti che gli impongono una falesia che incombe dall’alto cadendo a pezzi, e l’acqua del mare che pulsa e sospinge la superficie del terreno infiltrandosi dal basso. Un paesaggio instabile, pencolante, e inadatto alla vita, eppure - o meglio proprio per questo - l’unico dove la piccola diseredata comunità che il film racconta è riuscita a rubare un po’ di spazio dove stare.

Un gruppo di baracche in una landa ingombra di rifiuti e schiacciata tra la montagna e il mare diventa dunque la scena dentro alla quale si inscrive la versione cinematografica di Misericordia. Della pièce il film riprende l’idea di fondo, quella di un microcosmo fatto di donne sopraffatte dalla violenza, dai soprusi e dall’emarginazione eppure capaci di trovare, anche nella desolazione in-umana che lo caratterizza, una strana forma di sgangherata umanità. È questa che tiene insieme la famiglia - eh sì, è una famiglia - che Betta e Nuccia formano quando cominciano a prendersi cura di quell’inerme bebè dato alla luce da un’altra prostituta poco prima di morire. La famiglia che tengono insieme a modo loro mentre Arturo cresce con il corpo e non con la mente. La famiglia che si trovano a dover allargare con l’arrivo della bella e giovane Anna che chissà perché è stata catapultata lì spinta dall’orrore del mondo verso un abisso ancora più profondo.

Ancora una volta Emma Dante racconta dunque un universo al femminile rispetto al quale, come in Le sorelle Macaluso, la presenza degli uomini prende le forme dell’incursione. Ma se là la dimensione tragica era legata allo specifico del nucleo familiare, qui la tragedia è la materia stessa dell’esistenza di queste donne. E se là gli uomini sembravano esclusi dalla dimensione domestica per definizione stessa della natura del nucleo, qui sono tenuti fuori per sopravvivenza. Ad eccezione di alcune figure accessorie che entrano ed escono sporadicamente come spinte da una sorta di naturale inclinazione alla manutenzione delle cose o all’intrattenimento dei bambini, gli uomini rappresentano in Misericordia il corpo simbolico della violenza e della sopraffazione. Una violenza dalla quale Betta e Nuccia cercano di proteggersi ferinamente come ferinamente proteggono il loro cucciolo indifeso. Così reagiscono, usando gli oggetti sbilenchi e malandati per provare a salvare qualcosa e a tenere insieme quella parvenza di casa, come a rammendare con fatica e senza troppa speranza l’immagine di una domesticità negata dall’evidenza delle storture del mondo; così la coperta fatta all’uncinetto, i fumetti, la tazza di latte del mattino, i fili di lana, sono le ancore di salvezza di un universo in cui salvezza non c’è come non c’è speranza, se non quella di andarsene. E solo ad Arturo che sa danzare tra le macerie, solo a lui e al suo essere fuori norma può forse essere concessa questa ombra di misericordia.