Fuori Concorso

Viens je t'emmène di Alain Guiraudie

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Cineasta inimitabile, Alain Guiraudie costruisce film dopo film un proprio mondo ideale, unico e insieme universale, per sé e per chi ha voglia di seguirlo e accettare la sua visione volutamente e inevitabilmente parziale delle cose. Una visione omosessuale, certamente, o più ancora queer, che dopo l’atto di resistenza e di rigenerazione del precedente Rester vertical – film che metteva in scena alla tipica maniera astorica e fiabesca la necessità di azzerare ogni identità – con il nuovo Viens je t'emmène, film d’apertura della sezione Panorama della Berlinale, si cala nel contesto della Francia contemporanea, a Clermont-Ferrand, dove un attacco terroristico semina panico e morte, e prova a ridefinire la realtà secondo le proprie regole.

Viens je t'emmène parla di sesso, di amore, di conforto, di violenza, di protezione, di rifiuto, di disperazione, di resistenza e di resa, e lo fa in un contesto che mortifica il desiderio, che condanna il povero protagonista Médéric, un uomo buono e volenteroso, a non portare mai a termine l’atto sessuale con la donna che ama (la prostituta Isadora), ma regala anche speranza a chi sa chiedere aiuto, a chi sa prendersi le cose cui anela, e dunque trasforma una città, un palazzo, un appartamento, in un posto nuovo, diverso, più aperto, più vivo.

Guiraudie entra nel tessuto della provincia francese, il suo centro, le sue vie, i suoi sobborghi dormitorio, e mostrando i personaggi camminare, correre, lottare, spiare, scappare, assaltare, dare fuoco, chiudersi in un appartamento o in un albergo, in una chiesa o in un sottoscala, ridefinisce gli spazi, li rende cinematografici (era dai tempi di Il silenzio di Bergman che non si vedeva un amplesso in chiesa) e dunque umani. Il suo cinema rigenera il mondo, è una cosmogonia: per questo la sua visione omosessuale – che c’è anche in questo film, in un finale buffo e straziante nella sua semplicità – non ha la gratuità di rivendicazione militante, ma è l’ammissione di un pensiero, una possibile soluzione al male del mondo.

Con la stessa, magnifica leggerezza di Rivette e la stessa teatralità di Resnais – i due cineasti francesi più presenti in Viens je t'emmène, i modelli del suo tono sognante e serio come solo i giochi sanno essere – Guiraudie ha creato una ronde di personaggi e situazioni: Médéric accoglie prima nel suo palazzo poi nel suo appartamento un ragazzo, Selim, forse coinvolto nell’attentato; prova a strappare Isadora dalle mani del marito violento; grazie ai vicini di casa, che sono un po’ nazionalisti e un po’ disposti all’accoglienza, nasconde Selim dalla polizia e dagli spacciatori che lo vogliono morto; conosce l’anziano proprietario dell’hotel dove Isadora riceve i clienti e la sua giovane aiutante; resiste alle avances di una collega attratta da lui; lotta con il marito di Isadora mentre il suo palazzo è messo a ferro e fuoco dagli spacciatori…

Tutto avviene secondo una casualità e insieme una necessità a cui nessun personaggio può o sa resistere: l'amore è una condanna (e il personaggio del marito di Isadora è la figura più bella e commovente del film), la preghiera una scelta, il sesso una chimera o un obbligo da espletare, la violenza un atto inevitabile... La vita, nei film di Guiraudie, avviene a discapito dei personaggi, come un evento irrimediabile. Tocca perciò al cinema, alla sua capacità di creare un altrove che replica il qui e ora del tempo e dello spazio, generare un altro mondo, un’altra realtà, dove ogni uomo è in potenza omosessuale (è la visione di Guiraudie, il suo punto di vista di uomo e regista - ed è giusto che sia così, visto che il film è suo) e alla fine c'è posto per quasi tutti quanti, maschi, femmine e cantanti