focus top image

«Perché hai fatto tutto questo viaggio, quando avresti potuto arrivare qui dal mare?» È la fine del XIX secolo, Lucas (Elliott Crosset Hove), giovane pastore luterano danese, incaricato di prendere servizio in una comunità nel nord dell’Islanda, non risponde a questa domanda, che gli viene posta da Carl (Jacob Hauberg Lohmann), il referente danese del villaggio, presso il quale il giovane ministro sarà ospite in attesa che siano finiti i lavori per la nuova chiesa. E però è una questione chiave, che cade a metà del nuovo film di Hlynur Pálmason (A white, white day - Segreti nella nebbia, 2019), quando lo spettatore ha già attraversato l’isola col protagonista, ne ha condiviso la fatica e lo smarrimento progressivo (il film è stato girato in ordine cronologico, e Crosset Hove ha perso 12 kg durante la lavorazione), l’incanto per la natura e gli animali, il rapporto conflittuale con l'islandese Ragnar (Ingvar Sigurdsson), la dedizione all’attività fotografica, che comporta il trasporto di attrezzature delicate e pesanti. Arrivare via mare avrebbe impedito al protagonista, e alla macchina da presa, il confronto costante con la terra d’Islanda.

Vanskabte Land (danese), Volaða Land (islandese), il titolo ufficiale nelle due lingue parlate nel film compare in didascalia fin dall’inizio: “terra malformata”; Godland, "terra di Dio", è quello scelto per la distribuzione internazionale. L’uno non esclude l’altro: quella straordinaria isola, in cima alla Dorsale atlantica, è in qualche modo davvero “malformata”, o meglio, in continua (tras)formazione, quindi per certi versi è davvero terra di Dio – proprio per il continuo generarsi eplasmarsi della sua materia –, anche se, da quello che sembra lasciar intendere Pálmason, potremmo concludere che sia stata abbandonata dallo stesso: d’altronde, in una poesia di Matthías Jochumsson, autore anche dell’inno Islandese, “Volaða Land” è inteso come “terra infelice”, nella quale non è possibile abitare. Danese e Islandese, Lucas e Ragnar, il principio incerto della traduzione, e in più anche qualcosa che non insegnano (non insegnavano, perlomeno) ai corsi di filologia germanica: per i primi imparare la lingua insulare è superfluo (Lucas abbandona presto l’idea); per i secondi il danese è la lingua della domenica, dei sermoni, dei pastori ma anche dei governatori arrivati dal continente, via mare, un idioma aspro e sgraziato, che affatica la lingua, dice Ragnar. Perché Godland è un film che mette al centro, in maniera problematica, anche le relazioni coloniali con la Danimarca, durate fino al 1944 (quando il 90% degli islandesi votò per la secessione), come se queste fossero all’origine di una ulteriore “malformazione” istituzionale, una “genesi imperfetta” dell’Islanda moderna, che in fondo ha ancora una relazione culturale asimmetrica con Copenhagen.

Godland non è l’unico film della stagione a confrontarsi con storie di vicinato europeo, tantomeno lo è tra i film presentati a Cannes, gli fanno sicura compagnia, tra gli altri, R.M.N. di Mungiu e As Bestas di Sorogoyen, con la differenza che in questo caso, però, la vicenda è posta in una prospettiva storica.

Sarebbe forse meglio parlare di cornice, dal momento che tutto il film è girato in una ratio Academy, incorniciato da vignettature sugli angoli, ad evocare il formato delle fotografie alla gelatina d’argento realizzate da Lucas. È vero che non viene data occasione allo spettatore di vedere il risultato di quelle foto, ma si assiste al trucco, alla preparazione dei vetri, all’esposizione; né, tantomeno ci viene concesso di vedere le sette lastre originali ottocentesche sopravvissute che vengono menzionate all’inizio del film… per il semplice fatto che sono il frutto di una storia inventata dal regista per i suoi collaboratori, per inventare in maniera convincente il personaggio del vicario fotografo; ma è proprio in virtù di questo framing, e del fatto che il film è girato in 35 mm (straordinario il lavoro di Maria von Hausswolff, d.o.p. svedese da sempre legata a Pálmason), che il paesaggio, la “terra malformata”, emerge come vero protagonista assoluto, ricondotto attraverso una essenzialità documentaria severa, antispettacolare, ma sempre pronta ad infiammarsi dei colori delle montagne, dei licheni, della lava.

Per certi versi Pálmason raccontando il fallimento della missione di Lucas, cerca di mostrare la possibile superiorità del cinema rispetto alla fotografia, perlomeno sul piano poetico, lirico. Ma è in ultima analisi un modo per mostrare la superiorità della natura rispetto all’uomo: lo fa, per esempio, quando il suo obiettivo si sofferma a immortalare, dall’alto, il cadavere in decomposizione di uno degli adorabili cavallini; lo ripete ancora più esplicitamente con le spoglie umane (perché sì, qualcuno ci lascia la pelle), fissando il loro entrare in una relazione metamorfica con l’ambiente, con la “terra malformata”, e lo fa in time lapse (lo aveva usato anche in White, White Day), posizionamento inalterato, luci, colori, stagioni, vegetazione che cambiano ritmicamente, portando con sé la traccia, più che fotografica, di quello che è stato vivente, «il braccio che fu elegante, il lurido frammento di un eroe sfortunato». Una traccia per certi versi sfacciatamente pittorica, che sembra guardare, tra l’altro, all’opera di pittori di paesaggio, personaggi chiave della scuola nordica di fine ’800, come Jens Ferdinand Willumsen e Vilhelm Hammershøi: due danesi contemporanei del pastore Lucas. Due danesi che in Islanda, in quella “terra malformata”, non hanno mai messo piede.