Dal Locarno Film Festival

Do Not Expect Too Much from the End of the World di Radu Jude

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Nello splendido cortometraggio Shadow of a Cloud (2013), Radu Jude racconta la giornata di un sacerdote chiamato al capezzale di una donna prossima alla fine, mettendo in primo piano questioni come il commercio della fede, l’impossibilità di un autentico conforto interiore in vista della morte e l’angoscia di fronte alla prospettiva del nulla. A dieci anni di distanza e con un minutaggio ben diverso (163’), in Do Not Expect Too Much from the End of the World il regista rumeno mette ancora una volta in scena un mondo sprofondato in una crisi che non è solamente economica e morale ma anzitutto spirituale. Una crisi diagnosticata già nel pieno del Novecento dai vari Camus, Pessoa o Sartre ma traslata in un contesto dominato da disoccupazione e miseria, educazione scolastica carente e politiche sociali inadeguate. Uno scenario dove si staglia ancor più dirompente l’assurdità dell’agire umano, caotico e ateleologico (da qui appunto il turbamento eminentemente spirituale di cui si è detto), privo di certezze e anche di un vero e proprio baricentro etico e geografico.

Non è un caso, infatti, che la protagonista Angela (una straordinaria Ilinca Manolache), assistente di produzione cinicamente sfruttata da una multinazionale austriaca, si muova costantemente in auto per Bucarest allo scopo d’intervistare delle persone rimaste vittima d’incidenti sul lavoro e candidate a essere protagoniste di un breve film-progresso proprio sul tema della sicurezza; non è un caso che il film muti e cambi pelle nello spazio di un’inquadratura, di volta in volta road movie neorealista, metafisico descensus ad inferos, satira tagliente, commedia terzomondista immaginata però da Harold Pinter, film-saggio o film-catalogo (il folgorante inserto con le croci commemorative delle vittime degli incidenti stradali), passando con disinvoltura dal bianconero al colore, dal camera car al piano fisso; non è un caso nemmeno che la narrazione proceda per blocchi correlati, concludendosi con un lunghissimo pianosequenza frontale a camera fissa dove viene mostrata la realizzazione dello spot (il cui regista – si dice – aveva in precedenza tratto un film da un libro di Mircea Eliade...)

Come in Shadow of a Cloud, la narrazione si protrae nell’arco di un giorno e adotta una prospettiva che potremmo pomposamente definire post-esistenzialista. Più che una specie di Caronte (come è stato scritto), la protagonista è di fatto un nuovo Sisifo costretta sempre a retrocedere al punto di partenza, mossa da un’inquietudine invisibile e senza nome. I suoi incontri non le servono a maturare nuove consapevolezze, ma le confermano l’assurdità del mondo, l’assenza di senso e prospettive. Così nei momenti più divertiti e distesi (l’incontro su un set di fantascienza con il «peggior regista del mondo» Uwe Boll) come in quelli più complessi e rivelatori quale per esempio il confronto con la manager della multinazionale (una discendente del grande Goethe interpretata da Nina Hoss), che sintetizza in pochi minuti il rapporto di subalternità tra precari e privilegiati, poveri e benestanti, Europa orientale e occidentale.

L’unica reazione che la donna mostra, una paradossale forma di rabbia acquiescente che assume le forme incerte di un’ironia stizzosa e parodica, è affidata alle dirette social e a un filtro video in grado di trasformare il suo volto in quello dell’alter ego maschile Bobita, un macho retrogrado, conservatore e fascistoide. Figura di intellettuale in parte irrequieta e in parte blasé (sul suo comodino fa bella mostra di sé un volume di Proust ma talvolta sembra scorrere attraverso la vita con superna indifferenza, anche nei rapporti sessuali), tutto l’opposto del rude proletario protagonista di un altro grande e per certi versi analogo film rumeno come Animali selvatici di Cristian Mungiu, Angela s’immerge in un mondo dove diventano sempre meno impercettibili i segni della religione (come strumento di prigionia e censura: in una scena fa capolino uno dei romanzi-chiave del Novecento, I versi satanici di Rushdie), delle tortuose vicende etnico-politiche del recente o remoto passato (i tesi rapporti tra rumeni e ungheresi) e, soprattutto, della Morte (il ritratto dei Fayyum presente nell’agenzia di pompe funebri).

Sullo sfondo, ovviamente, un Paese in cui rimangono ancora vive le ferite dell’autoritarismo, della dittatura comunista di Nicolae Ceaușescu e del difficile processo di integrazione, democratizzazione ed europeizzazione. Tutti temi che riverberano nelle storie delle persone che Angela incontra o intervista, mentre, sempre in primo piano e contemporaneamente sempre nascosto, il profilo discontinuo di Bucarest sembra voler far esplodere tutte le contraddizioni, con i lasciti dell’architettura funzionalista residenziale del regime (e i suoi edifici monumentali dal design elementare) che si mescolano ai ricordi della Belle Époque e del neoclassicismo. Quello orchestrato da Jude, in fondo, è un viaggio tra le macerie rosselliniane di un mondo alla ricerca di una liberazione dal dominio del vuoto, prodotte dal mutamento e perfettamente rappresentate dall’idea espressiva del viaggio come forma di ascesa.

Lontano da ogni scialba ambizione di perfezione tecnica, Jude è autenticamente rosselliniano (con buona pace dei più rigidi e scandalizzati cultori del magistero del regista di Paisà) per la sua capacità di costruire il reale attraverso il rapporto tra l’uomo e lo spazio, tra l’immediatezza della rappresentazione e l’azzeramento delle distanze, tra la schiettezza delle emozioni e la continua scoperta dei luoghi, tra la forza dell’involucro narrativo e le continue epifanie della realtà che costringono a rimettere ogni scena (e ogni scelta) in discussione.

Non solo, però. L’autore di Sesso sfortunato o follie porno (con cui fu premiato con l’Orso d’oro a Berlino) riprende da Rossellini anche la necessità di superare certe contraddizioni del linguaggio da riunire in un nuovo progetto espressivo, anche se il suo sguardo a volte sembra quello di un moralista ottocentesco e a volte quello di un Voltaire meno incarognito. Così, la semplicità quasi sciatta del webcasting si unisce a una fotografia (di Marius Panduru) – in bianconero per la maggior parte della durata – quasi piatta e volutamente senza profondità, realizzata con mezzi pressoché amatoriali (c’è anche il flickering della luce sui muri) ma di una solidità corrusca e perfino scultorea.

Senza contare che la vicenda di Angela dialoga con quella dell’omonima protagonista del vecchio film di Lucian Bratu Angela merge mai departe (1981, titolo internazionale Angela Moves On), che come lei vaga in auto (qui, per la precisione, si tratta di un taxi) per le strade di Bucarest. Spezzoni di questo film vengono mostrati e integrati alla narrazione non solamente come semplice contrappunto. Con un geniale colpo di scena, infatti, si verrà a scoprire che il personaggio principale (non la sua interprete Dorina Lazar, che pure riprende il ruolo) di Angela Moves On è anche la madre di Ovidiu (Ovidiu Pîrșan), colui che sarà poi scelto per raccontare la sua sfortunata vicenda nello spot-progresso. Ennesima dimostrazione di un’idea di cinema liberissima (e per questo radicale), dove il nichilismo si stempera nella beffa: in fondo conviene «non aspettarsi troppo nemmeno dalla fine del mondo», suggerisce il titolo «rubato» all’aforista polacco Stanisław Jerzy Lec. Come a dire che ogni individuo sembra impossibilitato a costruirsi realmente il proprio futuro senza prima ritagliarsi uno spazio di libertà all’interno di un mondo recalcitrante a essere ridotto ai voleri del singolo.

A fare di Do Not Expect Too Much from the End of the World un capolavoro, però, è la capacità di Jude di condensare il discorso all’interno della sua ricerca stilistica che ha la quieta temperanza del gioco. L’apparente eterogeneità del linguaggio, infatti, serve per dimostrare un assunto apparentemente semplice: al giorno d’oggi ogni immagine può essere messa in comunicazione con qualsiasi altra. Non importano le sue origini, i suoi contorni, il suo formato, la sua destinazione d’uso e il suo significato originario: ogni differenza può essere integrata, senza pregiudizi o gerarchie. Un discorso che, in fondo, si è invitati a traslare dal piano ludico e semiserio del film ad altri e ben più importanti aspetti della realtà e della vita.