Max von Sydow: l’identità della vecchiaia

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Ho sempre pensato a Max von Sydow come a un attore già vecchio. Da sempre vecchio. Mi è sempre parso vecchio, fin dai tempi di Bergman. In La vergogna, ad esempio, mi sembra già vecchio prima che l’emergenza e la guerra lo invecchino e invecchino anche, sbriciolandolo, il matrimonio con Liv Ullmann. La celeberrima partita a scacchi con la Morte di quell’altro celebre film era una specie di lotta personale contro l’invecchiamento, cioè contro il tempo che passa, contro la Storia, contro il dopo e il domani: non aveva bisogno di invecchiare, Max von Sydow, era già vecchio, e la Morte lo sapeva.

Credo che l’avvenire di Max von Sydow sia sempre stato il suo presente. Non ha mai avuto l’oggi perché in sé conteneva già il passato e il futuro. Era già giunto, Max von Sydow. Perciò vecchio: nel senso di figura totemica, indisponibile alla ruggine degli anni. Un’immagine votiva. Che c’era per durare in eterno. Però non perché sempre giovane, ma anzi perché sempre e già vecchia in quanto custode della propria storia, dei natali e delle vicende, dei sentimenti e delle avventure, dei dolori e delle passioni.

Non so chi l’abbia creato, Max von Sydow. Di certo non il cinema, perché il cinema lui l’ha sempre e inevitabilmente adeguato a sé. Trovatemi un altro che sia stato in grado di passare da Ingmar Bergman a Mauro Bolognini in drag, da John Huston al camp dell’Imperatore Ming di Flash Gordon senza perdere per strada non soltanto l’autorevolezza e la serietà, ma soprattutto la sacralità. Il rispetto che i film e la critica gli hanno costantemente riservato è il rispetto che si dà non ai santi, non agli dei, non ai dogmi, ma al mistero e all’inspiegabile. Per me l’ignoto è qualcosa di secolare. Qualcosa di antico che merita quanto meno riverenza, se non devozione.

Max von Sydow ha attraversato i generi, le sensibilità, le produzioni e i mercati con la stessa inoppugnabilità: la sua era una vecchiaia integra, decisa, decisiva. Alla larga dallo stereotipo del vecchio saggio, Max von Sydow era vecchio perché sul suo volto e sul suo corpo aveva già impressi ogni volto e ogni corpo possibili, tutto ciò che c’era da inventare e qualunque cosa il cinema potesse immaginare.

Non c’erano classi per Max von Sydow, e non c’erano mainstream e serie B, per lui il cinema non aveva firme esclusive. Max von Sydow era una vecchia meraviglia; guardarlo era come contemplare una narrazione già avvenuta e ancora da venire, il frutto dell’evoluzione e la segretezza dell’arcano. Ai tempi di L’esorcista aveva 44 anni, ma sembrava averne ottanta, cento, centoventi, e non era una questione di trucco: Max von Sydow era un’idea astratta, vecchia perché sempre esistita, e perché intoccabile, assurda nella sua grandezza, non misurabile.

Ha fatto film brutti, Max von Sydow? Certamente. Ha interpretato ruoli brutti? Senza dubbio. Tuttavia Max von Sydow era sopra le parti, e non penso per presunzione: non era un contenitore, non era neppure un contenuto, era casomai un archetipo, e lo era sia in Come in uno specchio, sia in Dune; era un inconcepibile e un inverosimile ideale tanto con William Friedkin quanto con Joseph Ruben.

Max von Sydow era un concetto che il cinema ha sfruttato, e ha fatto benissimo, non ce ne sono poi tanti di concetti da poter impiegare senza smontarne le proprietà. L’industria ha capito che di Max von Sydow valeva l’incognita prima di qualunque tratto esibito. Non era infatti una star, Max von Sydow, almeno non come il cinema – e Hollywood in particolare – ha sempre concepito e usato le star. La sua presenza non era sufficiente a fare e giustificare il film: di Max von Sydow il cinema aveva intuito il rebus, pieno di imprevisti e di interrogativi, di dubbi e di infondatezze. È nato ed è morto così, Max von Sydow, quale improbabilità fondata. La notizia della sua morte effettiva non mi ha sorpreso, perché lo credevo già morto da molto tempo, ma perché sempre vivo, sempre uguale, sempre vecchio.

Per me Max von Sydow è stato e sarà sempre un dato inattendibile e inverificabile. L’ho sempre preso e visto così, come un’ipotesi che ogni volta, e ogni volta con incanto, si rilanciava, ridefinendosi e riqualificandosi, e ridefinendo e riqualificando contemporaneamente la bellezza di una vecchiaia che non ha mai dovuto dimostrare niente a nessuno.