Severin Fiala, Veronika Franz

The Lodge

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Ci si approccia all’horror sempre con una miscela conflittuale di paura e speranza, ogni qualvolta ne esca in sala uno con fondate speranze di dare una decisa sterzata a un genere che, visto l’elevato numero di uscite, perlopiù mediocri, rischia sempre la stagnazione. Ari Aster e Jordan Peele sono i nomi del futuro su cui puntare, forti di uno score di due su due, che non sono proprio numeri da NBA, ma confortano su una disposizione ancora in incoraggiante attivo. Severin Fiala e Veronika Franz, austriaci, 34 anni lui, 54 lei, moglie di Ulrich Seidl, di cui è anche abituale sceneggiatrice, sono nomi altrettanto promettenti. Soprattutto dopo l’opprimente Goodnight Mommy, dal quale sono però trascorsi ormai più di cinque anni. Fiala e Franz, assonanza cabarettistica ma deciso piglio drammatico, arrivati anche loro al secondo film (più un segmento del fin troppo discutibile film collettivo The Field Guide to Evil), sono abili costruttori di atmosfere, che rendono dense e tese per creare un ambiente narrativo ideale in cui sviluppare vicende che hanno al centro un nucleo familiare in via di rapida e raccapricciante disgregazione.

In quel caso, due gemelli convinti che la donna tornata a casa bendata dopo un’operazione di chirurgia plastica non sia più la loro vera madre. In The Lodge, due figli particolarmente turbati da un recente, violento, trauma familiare affidati a un padre, da poco separatosi dalla madre dei bambini, che pensa sia una buona idea trascorrere le vacanze di Natale in una casa isolata tra le nevi della montagna insieme alla sua futura giovane moglie, traumatizzata a sua volta nell’adolescenza da un suicidio di massa nella comune religiosa in cui viveva.

I due registi giocano nuovamente, dopo il loro esordio, sul versante dell’ambiguità, dell’inquietudine che si origina dall’impossibilità di determinare agganci e certezze cognitive, sfuggenti per deliberata scelta narrativa e per opacità dello sfondo. È l’indeterminazione che definisce il substrato angosciante che affiora dal film, l’incapacità di individuare un punto di vista oggettivo attraverso cui guardare le cose, un passato (quella della giovane moglie) talmente tragico da non poter essere elaborato compiutamente, il senso di inadeguatezza rispetto al nuovo ruolo di madre impropria cui la giovane pare destinata, il senso di isolamento e di abbandono che suona sempre come un valido stereotipo. Fin troppo evidenti sono infatti le tracce di Shining, pronto a materializzarsi ogni volta che la casa più vicina sia distante un centinaio di chilometri immersi nella neve, del citato Aster con Hereditary, a causa di una prospettiva ribaltata all’interno di una casa di bambole (benché l’utilizzo di un riferimento così recente non sappia tanto di ottica postmoderna che nobilita sempre tutto, quanto piuttosto di riprovevole opportunismo), e anche del Giro di vite di Henry James con tutti i suoi epigoni, da Jack Clayton ad Amenábar.

Fiala e Franz sanno come avvolgere lo spettatore con la loro costruzione lenta, quasi ovattata e a tratti opprimente grazie alla fotografia di Thimios Bakatakis, collaboratore del Lanthimos pre-Favorita. Una costruzione allestita dettagliatamente anche nella componente sonora, per creare quell’universo dotato di un falso controllo e illusori appigli all’interno del quale si affacciano squarci violenti e inattesi, come nella sorprendente sequenza iniziale di esplicita rottura di ogni precario e futuro equilibrio.

Tutto pare approntato appositamente per. Pure troppo, come la pistola che, memore dei dettami di Čechov, ha il suo degno e prevedibile utilizzo alcune scene dopo. Ciò che però lascia davvero interdetti sono alcune scelte illogiche di sceneggiatura, banali e incoerenti, che certo non possono essere riscattate dall’incombente senso di tragedia che molta critica ha replicato con slancio per giustificare comunque il valore del film. Così come appare un tendenzioso gioco di specchi e rifrazioni la mancanza di un ancoraggio identificativo certo, rimpallato con eccessiva disinvoltura tra i due ragazzi e la giovane moglie, perché alla fine rende completamente insondabile la questione morale, che nell’horror, soprattutto nei casi in cui ci si dovrebbe districare limpidamente in ruoli e funzioni, è sempre fondamentale per non scadere nell’inconsistente e nell’indistinto di un gioco artificiosamente tortuoso. Oppure per non formulare giudizi estetici esaltanti dettati da un’impressione generale che s’infrange malamente nell’osservazione dei dettagli più minuti ma non per questo meno importanti.

Aster e Peele restano lontani.

The Lodge
Usa-Regno Unito, 2019, 100'
Titolo originale:
The Lodge
Regia:
Severin Fiala, Veronika Franz
Sceneggiatura:
Sergio Casci, Severin Fiala, Veronika Franz
Fotografia:
Thimios Bakatakis
Montaggio:
Michael Palm
Musica:
Danny Bensi, Saunder Jurriaans
Cast:
Alicia Silverstone, Daniel Keough, Jaeden Martell, Lia McHugh, Richard Armitage, Riley Keough
Produzione:
FilmNation Entertainment, Hammer Films
Distribuzione:
Eagle Pictures

Dopo il suicidio della moglie, Richard decide di trascorrere le vacanze di Natale nel suo chalet di montagna con i due bambini e la nuova giovanissima compagna. Un impegno improvviso lo riporta in città per una notte, creando così l’occasione per la ragazza di familiarizzare coi figli. Una volta soli, un’oscura presenza si manifesta facendo riemergere nella giovane i traumi di un doloroso passato.

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