I cento anni del Partigiano Beppe

Beppe Fenoglio tra letteratura e cinema

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In occasione del centenario della nascita di Beppe Fenoglio, celebrato lo scorso 1 marzo, riproponiamo l'approfondimento di Lorenzo Pellizzari pubblicato su Cineforum n. 401 del gennaio 2001, sul complesso rapporto tra l'opera dello scrittore e il cinema, e in particolare sulla trasposizione cinematografica di "Il partigiano Johnny" diretta da Guido Chiesa.


Fenoglio in guerra: materiale resistente

Il vero discorso sul testo riguarda il romanzo di partenza, uscito per la prima volta con questo titolo da Einaudi nel giugno 1968 e ove il “ribelle” Fenoglio e il suo protagonista («Quest’uomo costretto a una fuga senza fine per colline, macchioni, ritani, impegnato soprattutto a combattere contro se stesso – la stanchezza e la solitudine, la paura e la tenerezza –, a conquistare giorno per giorno, dentro di sé, la sua rivolta ideale») paiono prefigurare – lo afferma il curatore Lorenzo Mondo, sensibile alle vicende europee di quell’anno – «i più puri ed attuali eroi del dissenso». All’epoca, Fenoglio, dimenticato dai più, è morto da cinque anni lasciando l’eredità controversa e forse ingovernabile di questo romanzo che, più che incompleto o inconcluso, appare dilatabile a dismisura e suscettibile di versioni, riscritture e pentimenti, tipici di uno scrittore monotematico sino ai limiti dell’ossessione. L’autore, infatti, esordisce nel 1952 con un racconto lungo (non a caso I ventitré giorni della città di Alba) accolto nei “Gettoni” di Elio Vittorini, ma dissapori con quest’ultimo inducono Fenoglio a lasciare Einaudi per approdare a Garzanti che gli pubblica il nuovo testo nel 1959 con il titolo Primavera di bellezza e previo il sacrificio di ben trentasei capitoli.

Sono proprio questi – i primi venti in seconda stesura, gli altri sedici in prima – a costituire il collage operato nel 1968 da Mondo e che nel tempo viene ad affermarsi come un vero e proprio libro di culto per almeno un paio di generazioni: quella resistenziale (che pur tiene le distanze, con una sorta di diffidenza e qualche sospetto, e non la ascrive propriamente alla letteratura sull’argomento) e quella della contestazione (che si riconosce, più o meno liberamente, nel modello). Ma la storia editoriale non finisce qui. Nel curare nel 1978 per Einaudi le opere complete di Fenoglio, Maria Corti accoglie l’edizione critica di Maria Antonietta Grignani, che offre distintamente le due versioni (più una variante in inglese che sembra una prima stesura del romanzo), svelando definitivamente la natura provvisoria del testo, mentre, tra le opere accolte successivamente nel volume della Pléiade Einaudi-Gallimard, il curatore Dante Isella opta per un discutibile montaggio delle due redazioni (l’inizio della prima e la fine della seconda), ritenendo con ciò di far valere l’ultima volontà nota dello scrittore (ed è a questa più recente versione che si rifanno Chiesa e Leotti, in accordo con la figlia e il fratello di Fenoglio).

La lunga digressione non è inopportuna. Critici e filologi che si sono alternati (ben prima degli sceneggiatori, ma con risultati non sempre convincenti o consequenziali) nel tentare di ricostruire il testo si sono comportati in modo non dissimile da quello che si può applicare, più che a un documento letterario, a un vero e proprio classico o a un poema (auto)biografico d’altri tempi, con ciò avallando il carattere epico del testo stesso. Addirittura Maria Corti (su «L’Espresso» dell’11 novembre 1999) si spinge oltre precisando: «Sono molto contenta che si faccia il film, ma a una condizione: che sia, come il libro, un’opera epica, non neorealistica. Bisogna sapergli dare non l’atmosfera neorealista di tanti film sulla Seconda guerra mondiale, ma un’atmosfera da Guerra e pace. Il regista si deve rendere conto che affrontare Il partigiano Johnny è come avere a che fare con l’Iliade».

Si vedrà poi come e se Chiesa abbia tenuto conto di questo autorevole, ancorché un po’ enfatico, invito, ma un fatto è certo: a differenza di alcune memorie romanzate del periodo che sono state in passato tradotte in film (valgano per tutti due tentativi di Giuliano Montaldo, L’Agnese va a morire, 1976, da Renata Viganò, e, su tutt’altro versante, Tiro al piccione, 1961, da Giose Rimanelli), il romanzo di Fenoglio è quanto di meno cinematografabile (1) e, soprattutto, riassumibile in una misura temporale obbligata possa esistere e la sfida risulta di per sé encomiabile. Tanto per dire, mentre i dialoghi sono rari e secchi, qualche volta persino pleonastici (e molto è affidato a una sorta di monologo interiore, di particolarissimo stream of consciousness), su tutto prevale un impasto linguistico (tra realistico e fantastico, tra colto e popolare, tra italiano e inglese) in funzione ampiamente descrittiva, sino allo spasimo, come se la vivisezione delle parole potesse sopperire all’assenza di immagini o volesse ricrearle, più al servizio dell’autore stesso (alla ricerca non di un «essere stato» bensì di un suo possibile «dover essere») che del lettore, qualche volta onestamente sconcertato. Né Il partigiano Johnny (nonostante il titolo che gli è stato apposto) può essere definito – al pari de Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, suo degno precursore – un romanzo “resistenziale”, sia per la sostanziale imparzialità del resoconto sia persino per una certa ambiguità di costrutto o per una certa obliquità di rapporto, quanto piuttosto un “romanzo di formazione” non casualmente collocato in un periodo determinante per le sorti individuali e collettive (tanto per restare al cinema, viene in mente un altro vecchio film: il piemontese-risorgimentale La pattuglia sperduta, 1951, di Piero Nelli, che, più che sugli ideali, si sofferma sui disagi).

In varie interviste mirate ai cinefili (da «Duel» n. 76, dicembre 1999, a «Film D.O.C.» n. 40, novembre 2000) Chiesa, oltre a esprimere una sorta di identificazione con lo scrittore («Non credo che sia un caso che mi piaccia Fenoglio: lui era uno che aveva molta disciplina. Faceva un lavoro molto banale, lavorava in una ditta vinicola, tutte le sere andava al bar, tornava a casa alle undici e tutte le notti scriveva e riscriveva e riscriveva. Non era mai contento di quel che faceva e in questo mi ci identifico. Credo che sia importante il fatto di avere rigore e quindi mi sforzo di cercarlo nella mia vita personale e nel modo di fare film»), espone una singolare quanto affascinante teoria su «Il partigiano Johnny» («L’incompiutezza non riguarda tanto la trama quanto la lingua, perché, se Fenoglio l’avesse pubblicato in vita, sicuramente l’avrebbe riscritto in uno stile molto più vicino agli altri suoi lavori. Ora paradosso vuole che fortunatamente lui non l’ha riscritto ed è rimasto questo magma linguistico, però la trama c’era») e si muove di conserva («Infatti noi abbiamo dovuto solamente operare dei tagli e qualche chiusura più cinematografica per esigenze filmiche»).

Un secondo tipo di identificazione – più sofferto e si direbbe più tormentato – è quello di Chiesa nei confronti della Resistenza, un mito vissuto di riflesso nell’adolescenza («nell’epoca delle bombe, delle stragi, di una certa parte politica») ma con il quale, da adulto e da autore, pare voler fare i conti («non mi importava tanto raccontare il momento politico, va tanto raccontare il momento politico, quanto piuttosto la storia di un ragazzo capace di fare una scelta e di andare sino in fondo, cercando di essere coerente e di non smettere mai di interrogarsi»). Lungi da intenzioni revisionistiche, ma capace ugualmente di sconcertare la critica più tradizionalista e il pubblico più assuefatto, il regista sin dai tempi del suo primo lungometraggio, Il caso Martello (1991), affronta l’argomento in modo insolito, un po’ alla ricerca del «padre resistenziale», un po’ con un intento esplorativo-preparatorio.

Ma v’è ancora un terzo tipo di identificazione: quello sul territorio. La piemontesità di Chiesa non è un localismo, bensì un vero radicamento che pare presupporre la conoscenza di ogni anfratto come di ogni gesto, in una sorta di docu-fiction dove lo spiegamento dei mezzi e delle ricostruzioni messo in opera non prevarica sull’essenza di un reperto da inchiesta etnografica. Ma quel che maggiormente colpisce è il fatto che non si tratta di un pur ammirevole «viaggio nel tempo» quanto di un messaggio che ha la valenza di un pretesto per parlare dell’oggi e dell’altrove (e viene in mente un recente film per certi versi analogo, I piccoli maestri di Daniele Luchetti, da Luigi Meneghello, ove accade proprio l’opposto, tra scarsa conoscenza dell’ambientazione, scarsa credibilità dei caratteri e confusioni di vario genere, per non parlare de La tregua di Francesco Rosi, da Primo Levi, di cui è lecito dire, almeno filologicamente, tutto il male possibile). Il passato esiste e viene rivisitato per confermare il presente, così come il vero testo forse è preso come pretesto.

E Johnny prese il fucile

Per chi assista alla proiezione de Il partigiano Johnny senza il fardello di eccessivi raffronti testuali con il romanzo (o addirittura avendo dimenticato i dettagli della trama) e soprattutto senza preconcetti di ordine ideologico l’impatto con il film consiste in una graduale immersione che rende partecipi ma lascia anche attoniti e sgomenti. Sarà per la nozione di verità che trasuda da ogni immagine (qualcuno ha citato, non si sa quanto a proposito, La sottile linea rossa di Terrence Malick o addirittura Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg), sarà per l’assenza di enfasi (che non è soltanto lo scarno uso del dialogo), sarà per il tono antieroico della fotografia, sarà persino perché la tanto deprecata invadenza delle musiche originali di Alexander Balanescu finisce con il passare inosservata e fondersi con l’accurata colonna dei rumori, ma la trepidazione e lo sgomento nascono proprio dal fatto che succede di tutto e non accade niente (e che i garbati accenni o le minime concessioni a quanto può sapere di plot – il rapporto frivolo con Elda e il rapporto drammatico con Sonia sono solo due esempi – scivolano lungo i tempi dell’attesa e dell’inespresso, capaci da soli di sollecitare l’attenzione). A questo punto, il timore o la speranza che il film possa volgere in chiave neorealistica sono superflui: di una sorta di antineorealismo Il partigiano Johnny ha certi slanci poetici, certe ellissi, certe arditezze formali, certe insistenze sui dettagli, certe rinunce didattiche o edificanti, e non può essere confusa con le teorie messe in atto da quel movimento una verosimiglianza di luoghi e di persone che è – anche per ovvi motivi – più ricostruzione documentaria che indagine sull’esistente.

Come già accennato, a merito del film può ascriversi un’apparente contraddizione, quella relativa all’impegno produttivo. Ai dati un po’ ostentati dalla promozione (millecinquecento comparse, mille costumi, seicento armi, trenta veicoli, nonché cento location fra interni ed esterni) non corrisponde alcuna sensazione di esibita grandezza, di impegno colossale, di preponderanza dei mezzi. Tutto viene come diluito od occultato in termini minimalistici o fa talmente parte di una sorta di epica interiore da poter passare inosservato. Il discorso può essere esteso anche agli attori: nonostante la costante presenza dell’antieroico Stefano Dionisi, nonostante il suo ruolo di conduttore della vicenda (e anche nonostante la sua indubbia bravura), il processo di immedesimazione in lui fa sì che si seguono e si scorgono maggiormente i volti, i gesti, le azioni degli altri, quasi come se li vedessimo con i suoi occhi. E un altro apprezzamento lo merita il calcolatissimo ritmo dell’azione filmica, che – se tradotto in diagramma – mostrerebbe in ordinata una scansione della lunghezza delle sequenze quasi uniforme e in ascissa un succedersi equilibrato di picchi di tensione alternati ad altrettanti cali.

Abbiamo lasciato per ultimo il discorso storico o, se vogliamo, politico. Mentre sul versante dell’attendibilità cronachistica non possono esservi dubbi (le stagioni e le date sono quelle, l’alternarsi di successi e di insuccessi, di avanzate e ripiegamenti, di conquiste e di perdite rispecchiano esattamente una sorta di diario militare, quale si configura per certi versi anche il romanzo di Fenoglio), paiono più sfuggenti la dimensione generale e le stesse motivazioni della lotta, tutto peraltro ampiamente giustificato e dall’isolamento delle formazioni partigiane e da una generica propensione a scegliere una parte per istintiva reazione contadina o intellettuale al sopruso, quasi si direbbe per autodifesa (se non altro dal reclutamento forzato o dalla deportazione dei renitenti).

Paradossalmente, cogliendo una battuta del film (vedi scena delle trattative al traghetto), paiono più investiti della responsabilità di garantire comunque un futuro all’Italia i fascisti della Brigata Muti e delle Ss italiane che non, al di là dei discorsi di maniera del commissario politico o del comandante Nord, i “ribelli” delle varie tendenze. A proposito di queste ultime, del resto, né il libro né il film prendono eccessiva parte: i “rossi” marxisti e gli “azzurri” badogliani paiono più definizioni convenzionali (come accade nelle manovre militari) che non effettivi concorrenti (anche molto decisi e competitivi tra loro) alla determinazione o alla gestione, come ben sappiamo, delle sorti finali. Che in tempi di revisionismo ciò possa apparire una carenza andrebbe verificato ma, più che tra i “reduci” (che si sono un po’ sentimentalmente tutti schierati a favore del film), tra i giovani delle immancabili – speriamo – proiezioni scolastiche, anche se resta il piccolo sospetto che solo una sapiente e ben supportata visione della pellicola possa scongiurare ogni pericolo in termini di confusione ideologica o peggio di giustificazionismo storico (v’è in proposito nel film un inopportuno quanto improbabile e anacronistico riferimento deprecatorio a quel che «fanno i partigiani di Tito in Jugoslavia»). Più credibile allora il discorso sull’atrocità della guerra che contrappone un esercito soltanto di nome (quello dei partigiani filomonarchici che si comportano come lo fossero veramente) e un esercito non più degno di esserlo (quello dei repubblichini che hanno rinunciato a ogni regola del gioco), un’atrocità che vede gli uni effettuare stragi di civili inermi e gli altri compiere implacabilmente esecuzioni di presunte spie, supposti delatori o compagni macchiatisi di reati comuni. Se usassero ancora simili categorie, Il partigiano Johnny potrebbe essere definito in questo senso un ottimo esempio di film pacifista. E, precisando che pacifista non vuol dire pacificatore, questo è il più bel complimento che gli si possa rivolgere.