Racconto di Natale – I tre padrini di Cronenberg

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Una madre che muore di parto dopo aver dato alla luce una bella bambina, tre personaggi diversamente assortiti che se ne fanno carico, varie vicissitudini che portano a un lieto fine. È la trama del classico natalizio In nome di Dio (Three Godfathers, 1948) di John Ford, direte voi. Vero, ma è anche la storia narrata da David Cronenberg nel 2007 in La promessa dell'assassino (Eastern Promises). Cronenberg, che passa per essere un regista scientifico, razionale, ma in realtà è anche uno dei più lirici e sentimentali in circolazione (sia pure molto a modo suo), con La promessa dell'assassino ha narrato la più natalizia delle sue storie: il film è ambientato nel periodo fra Natale e Capodanno; parla di una natività travagliata; c'è un terzetto di padrini/re magi ben assortito; e non fa neanche mancare un Babbo Natale dall'apparenza paciosa ma con un cuore bastardo da vero Erode. Magari, non fatelo vedere ai bambini; per il resto, è una visione natalizia che raccomandiamo caldamente. «Cineforum», sul n. 471, gennaio/febbraio 2008, gli dedicò un ricchissimo Speciale, del quale riproponiamo l'articolo scritto da Giuseppe Imperatore. Oh, oh, oh! Buone Feste a tutti!


Il fondo nero della violenza

Nel cinema contemporaneo nulla è meno sovrabbondante, compiaciuto, gratuito e al tempo stesso tanto shockante e disturbante quanto l’impatto della violenza nei film di Cronenberg. Che sia motivata da istinto di conservazione, coazione a ripetere, brama sadica o dovere criminale, essa è come una lama che penetra l’occhio dello spettatore e ne squarcia i tessuti per innestarsi, poi, nella sua mente. Un corpo estraneo, parassitario, efflorescente. […] Alla “norma” aderisce anche la selezione dei personaggi che, insieme agli spettatori, entreranno a contatto con la violenza: da una parte, nel film precedente, una comunissima famiglia americana e una pacifica comunità del midwest, dall’altra due donne di origine russa, due “ordinary persons”, l’adolescente Tatiana e l’ostetrica Anna, in una Londra scaldata dal tepore della festa familiare per eccellenza, il Natale.

[…] Cronenberg, senza alcun intento storico-sociologico, denuda la corporea anima violenta dell’uomo e delle sue istituzioni civili (la famiglia in primis), il suo ostinato e compromissorio spirito di conservazione, la sua egoistica, sensuale e primitiva brama di vita. Quella che i suoi film propongono a noi tutti è una consapevolezza irrisolta, drammatica, vibrante: dietro a ogni faccia(ta) si nasconde il mostruoso, l’imponderabile, che è, in realtà, norma istintuale, desiderio ambivalente, dinamismo profondo. È ciò che il corpo e la civiltà stimolano sensualmente e reprimono istintivamente. Mostruoso è quel rimosso sublimato e contenuto dalle Istituzioni – a partire dal Super Io in su. Allora il cinema di Cronenberg è stra-ordinario perché, attraverso le immagini, la luce e la superficie, sguscia lungo l’epidermide della norma per mostrarne il volto e aprirvi ferite violente e shockanti. Suggeritore dell’abisso, il suo cinema si affaccia su onde poderose smosse da incontenibili correnti sottocutanee.

Semyon è il patronus di una gens mafiosa rozza, brutale e senza scrupoli, la tribù dei Vory V Zakone. Ha un aspetto amabile e due rassicuranti occhi azzurri. Dietro la facciata elegante e discreta del suo ristorante, gestisce contrabbandi, furti, ricatti, prostituzione, tradimenti e omicidi. Ciò che per lui conta è il denaro, ma ha anche i suoi “piccoli angeli”, le due nipotine a cui insegna a “far piangere il legno” del violino. Glielo si legge negli occhi, ama davvero quelle due bimbe, quei due angeli. Lungo Eastern Promises incontriamo altri angeli, ora portatori di speranza e forse di redenzione, come la piccola Christine (nome, al femminile, del Salvatore; «È lei il mio angioletto», dirà l’angelica Anna a fine pellicola), ora di follia (quello che avrebbe “toccato” il giovane Soyka) o addirittura di morte (quello che Kirill ritiene il vero festeggiato in un convegno natalizio di centenari russi).

Semyon, faccia d’angelo, si comporta come un Moloch, un angelo caduto, un Dio che vuole il suo tributo di sangue e soprattutto di bambini; è un Saturno che divora i propri figli, siano essi legittimi, come Kirill, naturali, come Christine, o acquisiti, come Nikolai. Semyon è a capo di un’orda di non-vivi che come virus si aggirano per le strade di una Londra bagnata e spettrale diffondendo quella stessa morte che vedono inflitta, infinite volte, alla propria anima. Nikolai, l’autista-becchino, afferma di essere “già morto” a quindici anni e la quattordicenne Tatiana, vergine resa schiava, prostituta e madre da Semyon, confessa al suo diario, subito dopo aver scritto il proprio nome: «Mio padre è morto nelle miniere del suo villaggio, perciò era già sepolto quando è morto. Eravamo tutti sepolti lì, sepolti sotto il suolo della Russia». Si fugge dalla Madre-Russia, dalla sua povertà, dalle sue prigioni solo per trovare sepoltura a Ovest, nella Londra immaginata come una favolosa città della Bibbia, quella stessa città che Semyon descrive come una Sodoma tiepida, «piena di puttane e di checche».

Londra: l’unica inquadratura in cui la capitale britannica è riconoscibile è posta a inizio film, appena dopo il sanguinoso prologo, quando Anna, di ritorno dalla notte in ospedale, attraversa il Tamigi sulla moto del padre e una breve panoramica plana dalla City al Tower Bridge. Di quella che è una delle metropoli più sovraesposte al mondo, scopriremo presto un volto diverso da quello mediatico, il volto indagato dallo sceneggiatore Steve Knight che già con Piccoli affari sporchi (2002) di Stephen Frears aveva narrato la faccia invisibile della città, movendosi tra le comunità di immigrati dove s’incrociano storie di sopravvivenza, sfruttamento e sogni di chi cerca a ovest un futuro migliore – in questo caso Londra, nel film del 2002 un’idilliaca New York. Sceneggiatore e regista condividono la passione del mostrare ciò che tutti abbiamo sotto gli occhi ma che nessuno vede perché ottusi e inquadrati da una retorica sociale dello sguardo. «Noi siamo quelli che voi non vedete. Siamo quelli che guidano i vostri taxi, che puliscono le vostre camere e che ve lo prendono in bocca», dicevano i protagonisti del film di Frears. Ora a emergere dall’invisibilità sono i criminali e le loro vittime: corpi ridotti in schiavitù e alla compravendita, anime stracciate, desideri annichiliti, cervelli bruciati. Per sempre.

Eastern Promises è intessuto da una fitta dialettica tra luce e ombra, tra vita, morte e rinascita. Dicevamo del caldo Natale nella nera Londra cronenberghiana. Tutta la vicenda si svolge nell’arco di pochi giorni durante i quali una giovane vergine, morta e sepolta nella schiavitù, violentata da un angelo caduto, partorisce un angelo redentore capace di innescare un processo che porta a scoperchiare e rovesciare i vertici della mafia russa, favorendo la vittoria della luce sulle ombre.

Eppure non tutto è così lineare. Che dire di quelle due inquadrature finali, la penultima su Anna e Christine (Anna, in ebraico “la Grazia”, nome della madre della Vergine Maria, patrona delle partorienti), madre e figlia (della Vergine, del Demone) che godono all’aperto del sole primaverile e della raggiunta serenità, e l’ultima, devastante, sul volto buio e triste di un Nikolai ormai padrone e al contempo schiavo dell’organizzazione criminale e della vita che ha scelto di non-vivere, vestito elegantemente a nascondere i segni sulla pelle, la ri-scrittura di chi prima ha “oltrepassato la soglia” e poi, squarciato dalle lame, ha patito l’esplodere nel sangue.

Nella notte di Capodanno, a scongiurare il battesimo mortale della bimba nel Tamigi, si era composta una sorta di “sacra famiglia”. Anna, Nikolai e Christine stavano abbracciati nella stessa inquadratura a bramarsi e a celebrare la loro salvezza. A fine pellicola invece ognuno vive il proprio destino, ma nella consapevolezza di non poter più chiudere gli occhi sulla realtà… Già, ma le cose stanno così? Oppure accettare la violenza è il vero destino dell’uomo e delle umane istituzioni sociali? Si riveda la sequenza finale di A History of Violence e l’accoglienza silente alla cena familiare del padre/criminale Tom/Joey. Al termine della nuova pellicola ad attendere Anna c’è un’altra tavola imbandita, questa volta gioiosamente, e su di essa una luce troppo bianca per essere naturale. Lei, in fondo, per tutto il film pare disinteressata allo scandalo della mafia. Il suo unico pensiero è per la salvezza della piccola, una salvezza vede, come primo obiettivo, l’assegnarle una famiglia. Un tale attaccamento di Anna alla bimba si può addurre al fatto che la donna ha appena fallito una gravidanza e perso il fidanzato?

Istinto materno, attaccamento alla famiglia borghese, voglia di rinascita, orrore del buio. Ancora una volta, per avvicinarci al discorso cronenberghiano sull’uomo, dobbiamo rifarci al dato visibile e flagrante, al corpo. Nei minuti iniziali del film il sangue bagna le inquadrature, ne satura il senso, inclina la pellicola verso una spirale di morte che si scioglie solo nel primo miracoloso respiro della bimba appena nata. Il corpo fragile, liquida scorza, luogo preposto alla vita, si può trasformare in arma devastante, in oggetto di piacere, in materia di commercio, può essere privato dell’identità e poi usato per contrabbandare messaggi alla polizia. È inserendo nel proprio corpo sostanze estranee che si può uscire da sé (Kirill, che non accetta se stesso, si abbandona all’alcool e alle droghe). È celando nel proprio corpo un’altra identità che si può essere altri da sé, pur avendo tatuato sulla pelle il diario della propria storia di violenza – sono due i diari squadernati dal film: uno è quello di Tatiana che, inquadrato in primo piano, passa di mano in mano, di traduzione in traduzione, e lega i vari personaggi, scatenando in ognuno reazioni differenti; l’altro è il corpo tatuato di Nikolai. In entrambi i casi la scrittura è frutto di un patire, è rivelazione del sé e della violenza, rimanda ad altro, a ciò che si agita sotto l’immagine corporea. L’altrove suggerito dai corpi, dalle loro superfici, il loro rimandare a una storia (o a una History) lontana e nascosta, si fa pungolo dell’intera messa in scena. Una messa in scena nera, o meglio noir, tanto nella trama quanto nella fotografia notturna e in numerose scelte di tono. Genere violento e sfuggente, pieno di ombre e contraddizioni, oggetto più adatto a sollevare domande che a suggerire risposte, il noir esalta l’ambiguità degli stilemi cronenberghiani. Non solo Cronenberg guarda in faccia la violenza con una prossimità epidermica, ma si sofferma su ciò che in essa vi è di più nero sprofondando nella sua totale assenza di luce.

È a questo punto che dobbiamo tornare a chiederci dove possa condurre questo inabissamento nel buio. Il dubbio è che lo sprofondare nel nero, generalmente, non susciti altra reazione che lo scegliere istintivo di alzare lo sguardo verso una rassicurante traccia di luce – già, che riporti in superficie chi ancora può risorgere: Anna, sua madre, probabilmente noi tutti.

Nikolai, invece, sceglie di affondare nella violenza. È al contempo criminale e poliziotto, angelo e demone, parassita insediato nel corpo cancerogeno e da questo cancro plasmato, tatuato, sfregiato e irrimediabilmente corrotto. Nikolai è un cane sciolto che nemmeno Scotland Yard vorrebbe più tollerare, un duro coperto dall’ambiguo potere dell’Fsb, un figlio del famigerato Kgb – inutile ricordare quante ombre si addensano ancora oggi sugli attuali servizi segreti russi? Nikolai è diventato re ai danni del Moloch Semyon, circuisce il debole, impulsivo e innamorato Kirill, la cui omosessualità latente è più che suggerita a tratteggiare un’anima dilacerata, un’istintività bramosa e repressa con furia e dolore perché inaccettabile.

Come per i tanti doppi, fratelli, inseparabili e mutanti del cinema di Cronenberg, al termine del film è inevitabile chiedersi: chi è Nikolai? «Chi sei?», gli chiede Anna, formulando la domanda fondamentale di tutta la cinematografia del regista canadese, una domanda che Cronenberg mai smette di porre all’uomo, a se stesso, a noi. Una domanda che si fa tanto più patetica, urgente e necessaria perché posta a chi, come Nikolai, sceglie di sopravvivere in un violento, ambiguo e bestiale corpo a corpo col nero. Al buio.

Fissato il volto della violenza, solcata l’ambiguità dell’anima, immerso il corpo in un ciclo amniotico e sanguinante di nascita, morte e riscrittura, tocca infine all’effige di chi ha scelto di precipitare nel buio, e alle parole di una vergine madre che nel buio è stata scaraventata, il compito di traghettare lo spettatore verso una selva di ombre destinate a scottare la superficie dei corpi e dei linguaggi. Alla ricerca dell’abrasione capace, come una lama fendente, di stracciare il cieco varco che spalanca l’abisso più nero.