Per i lettori di Cineforum 30 giorni di esplorazione gratuita di Mubi

Yasujirō Ozu su Mubi

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Cinema di qualità, classici del passato da ritrovare, piccole perle contemporanee da scoprire: inizia questo mese una collaborazione tra Cineforum e Mubi, la piattaforma streaming di cinema d’autore che, insieme a Claire Denis, Steven Soderbergh, Agnès Varda e altri, propone in queste settimane i film del maestro giapponese Yasujirō Ozu. A partire da giugno Mubi offre ai lettori di Cineforum 30 giorni di esplorazione gratuita della sua piattaforma.

Vi proponiamo il saggio di Eugenio De Angelis sul cinema di Ozu, pubblicato su «Cineforum» n. 530, dicembre 2013.


Una dettagliata essenzialità

Il rapporto tra interni ed esterni nel cinema di Ozu

Nelle analisi sul cinema di Ozu Yasujirō, un argomento che ha sempre affascinato gli studiosi è quello dei cosiddetti empty shots, le “inquadrature vuote” che il regista solitamente inserisce tra una scena e l’altra contrapponendole a quella camera fissa, posizionata “ad altezza tatami”, che contraddistingue il suo stile. La grammatica filmica di Ozu si è andata affinando in un’opera di sottrazione continua che raggiunge la maturità stilistica con Tarda primavera per culminare nel suo ultimo lungometraggio, Il gusto del sakè. Questa operazione comincia già negli anni Trenta, con Sono nato, ma…, dove il regista inizia a fare a meno della gran parte degli espedienti cinematografici consueti, eliminando poi, negli anni, movimenti di macchina come panoramiche, dolly, e tecniche di montaggio come le dissolvenze, preferendo l’uso esclusivo dello straight cut.

Ozu rimarrà così fedele al suo metodo di lavoro – e ai suoi collaboratori, come lo sceneggiatore Noda Kōgo o l’operatore Atsuta Yûharu – che tredici delle quindici opere prodotte dall’autore dopo la Seconda guerra mondiale possono essere considerate un unicum tematico e stilistico. In queste tredici opere il regista metterà in scena la disgregazione della famiglia giapponese a fronte dei grandi cambiamenti in atto nel Paese, concentrandosi in maniera specifica sul rapporto/distacco tra genitori e figli, soprattutto nella variante padre-figlia, dando grande rilevanza a ciò che avviene tra le mura domestiche, in una sorta di “studio di famiglia in interni”.

È in questo contesto che acquistano importanza i già citati empty shots, chiamati anche still life, nature morte o pillow shots, inquadrature cuscinetto. Ozu pone infatti tra una scena e l’altra, in maniera sempre più sistematica, riprese di ambienti od oggetti, ma soprattutto paesaggi, come dei commentari naturali nei quali risalta molto spesso l’assenza dell’uomo. Certamente in un cinema così essenziale e controllato, queste componenti risultano quasi come delle aperture alla rigidità della messa in scena, in grado di amplificare l’emotività degli eventi. L’emotività “diretta”, infatti, in Ozu è quasi sempre elusa: con un processo tipico nel suo cinema, il regista evita di mostrare gli eventi a più alta gradazione emozionale, preferendo relegarli fuori campo o farne venire a conoscenza lo spettatore solo a posteriori. Nonostante vi siano eccezioni significative come la morte della madre in Viaggio a Tokyo, questa strategia è frequente e viene usata sia per il matrimonio della figlia in Tarda primavera che in quello di Il gusto del sakè, nei quali non si vedrà mai neppure il tanto discusso sposo. E ancora in Viaggio a Tokyo si verrà a sapere del malore della madre solo tramite i telegrammi che si scambiano i figli, mentre in Crepuscolo di Tokyo, Ozu non mostra né l’incidente, né la morte della figlia minore, ma solo l’ultimo colloquio che avrà con il padre e la sorella nel mezzo di questi due avvenimenti.

Il cinema di Ozu non è quasi mai fatto di grandi avvenimenti, la narrazione procede, contemplativa, attraverso la descrizione della quotidianità dei personaggi. Per questo le opere in oggetto sono ambientate quasi esclusivamente in interni, soprattutto tra le mura domestiche (dove il regista può ulteriormente giocare sul concetto di dentro/fuori utilizzando gli shōji, i pannelli scorrevoli che sostituiscono le nostre porte, ma vengono utilizzati spesso anche bar e ristoranti, uffici lavorativi e, più saltuariamente, scuole e stazioni). A ognuno di questi interni Ozu sembra affidare ruoli distinti: in casa si sviluppano e si discutono gli eventi più importanti (matrimoni, funerali, litigi) che coinvolgono la sola cerchia familiare, nei bar e nei ristoranti si ritrovano vecchi compagni di scuola, ex commilitoni o semplici estranei. Qui i discorsi vertono quasi invariabilmente su quanto sia difficile crescere i figli, sulla poco esaltante vita del salaryman e sui cambiamenti avvenuti in Giappone dopo la guerra (con non poche critiche al periodo bellico). L’ufficio è invece il naturale contraltare del focolare domestico; Ozu non mostra mai i propri personaggi al lavoro per più di qualche secondo, preferendo invece sfruttare questo luogo come motore dei cambiamenti nelle vite delle persone (il trasferimento in Crepuscolo di Tokyo) o per descrivere la gerarchizzazione della società giapponese.

Se si escludono le già citate scene di raccordo, rari sono invece i casi di avvenimenti o azioni in esterni, anche se a volte si rivelano decisivi. Una caratteristica che sembra accomunare queste scene è quella della clandestinità: spesso infatti contengono incontri tra personaggi che non potrebbero frequentarsi o che non potrebbero trattare le loro vicende all’interno dell’(idealmente) incontaminato ambiente domestico. Gli esempi più lampanti sono il confronto del protagonista di Inizio di primavera con la sua amante e l’incontro di Akiko con Kenji in Crepuscolo di Tokyo, dal quale emerge la volontà della giovane di abortire. Un altro esempio celebre è contenuto nel finale di Il tempo del raccolto del grano, con il decisivo dialogo tra le due sorelle, ambientato tra le dune di una spiaggia, nel quale il personaggio di Hara Setsuko prende finalmente la decisione di sposare un uomo diverso da quello scelto dalla famiglia. All’inizio di questa scena è presente inoltre un raro movimento di macchina, con l’inquadratura che sale verso l’alto fino a scoprire il mare, aprendosi verso l’orizzonte (e il futuro della protagonista).

Questo esempio porta a esaminare come interni ed esterni vengano differenziati anche attraverso le scelte registiche. Ozu, infatti, non usa mai movimenti di macchina in interni, salvo rarissimi casi isolati, tanto che l’ultimo movimento “significante” avviene addirittura negli anni Trenta, in Sono nato, ma…, dove, con una carrellata e un montaggio parallelo (altro “orpello” poi più usato), mette a confronto la noia dei bambini a scuola, con quella degli adulti negli uffici. Quelli presenti invece nel tardo Ozu, quasi sempre dolly, hanno carattere misterioso, come il breve carrello in avanti di Inizio di primavera. In tutti gli altri casi, quando deve girare scene in interni la macchina è costantemente ferma, poggiata a pochi centimetri da terra, spesso distante dai personaggi. Rimanendo fedele a questa pratica, Ozu abbandona tutti quei mezzi – movimenti di macchina e montaggio “invasivo” – usati per veicolare dramma e emozioni, smettendo così di “commentare” le scene. Questo, paradossalmente, avvicina i personaggi allo spettatore che diventa in grado di empatizzare con loro e provare emozioni in maniera più genuina e intensa.

In esterni, invece, il regista fa abbondante uso di dolly e panoramiche nei film precedenti alla guerra, continuando a usarli, pur in maniera contenuta, anche in film del dopoguerra, soprattutto quando si tratta di riprendere personaggi in movimento. Nel processo di sottrazione intrapreso da Ozu, però, anche questa pratica andrà scomparendo, tanto che la scena della gita aziendale a Enoshima di Inizio di primavera sarà l’ultima in pieno movimento del suo cinema. Con i movimenti scompaiono progressivamente anche le scene in esterni, relegate a pochi secondi di durata: spesso un’inquadratura fissa su un personaggio che entra o esce dal luogo dove si svolge l’azione. Un’eccezione è costituita da Buon giorno, dove numerose sono le scene ambientate tra le stradine del complesso residenziale epicentro del film. Trattandosi però di un’opera fondamentalmente corale, dove gli abitanti del quartiere possono essere considerati come una famiglia allargata, l’agglomerato di abitazioni si trasforma in una unica, grande casa.

Quando si parla di esterni nel cinema di Ozu, più che alle rare scene ambientate all’aperto analizzate finora, la mente va sicuramente a quelle che sono state definite le nature morte, inquadrature statiche della durata di pochi secondi che ritraggono paesaggi – urbani o naturali – con occasionali close-up su dettagli come un insegna di un bar, un orologio, una ciminiera. Questa caratteristica peculiare del cinema di Ozu ha destato un grande dibattito critico, portando gli studiosi a conclusioni differenti. Ad esempio, per Bordwell, queste immagini “spurie”, essendo spesso esterne alla prospettiva dei personaggi, riflettono l’instabilità del punto di vista nei film del regista e non hanno quindi bisogno di una legittimazione narrativa (David Bordwell, Ozu and the Poetics of Cinema). Schrader, invece, è arrivato a leggere queste inquadrature intermedie come richiami a pratiche estetiche del buddhismo zen giapponese e al concetto di mu (nulla, vuoto), per il quale il silenzio e le scene di passaggio sono la vera sublimazione dei dialoghi e dell’azione (Paul Schrader, Il trascendente nel cinema).

La loro funzione più evidente rimane comunque quella di fare da contrappunto emotivo e psicologico – neutrale, esterno – a ciò che avviene – in interni – ai personaggi, facendosi carico dei loro sentimenti come delle sorte di “memorie storiche”. In Tarda primavera, ad esempio, sono presenti due inquadrature identiche del paesaggio di Kamakura. Quando viene mostrato la prima volta, in apertura di film, comunica allo spettatore un senso di tranquillità e pace, ma nella successiva riproposizione della stessa inquadratura, il cielo è coperto e trasmette un vago senso d’angoscia e oppressione, perché compare subito dopo che la figlia ha appreso, con enorme dispiacere, la decisione del padre (in realtà fittizia) di risposarsi. Nell’ultima inquadratura della pellicola, invece, Ozu riprende un mare mosso, chiaro riferimento all’animo in tumulto del padre, rimasto solo in casa dopo il matrimonio della figlia. Similmente il battello sul fiume che chiude Viaggio a Tokyo è l’emblema della vita del padre che va avanti, placidamente, nonostante la morte dell’adorata moglie. In entrambi i casi ne risulta «una sorta di rassegnata tristezza, una calma e consapevole serenità che si mantiene a dispetto dell’incertezza della vita e delle cose del mondo» (Donald Richie, Yasujiro Ozu. The Sintax of His Films, «Film Quaterly»).

Nei tardi anni 50, quando lo stile di Ozu diventa ancora più essenziale, eliminando anche gli elementi fin lì usati come il piano sequenza e i primi piani, queste inquadrature intermedie sembrano perdere il loro ruolo commentario per fungere sempre più da punteggiatura. Creano infatti uno iato, una breve pausa utile a tenere distinte le azioni senza contrasti, spogliandole di qualsiasi orpello emotivo. L’apice di questo agognato minimalismo viene raggiunto proprio nell’ultimo film, dove tali inquadrature fungono da mero collante tra un cambio di scenografia e l’altro, aiutando lo spettatore a contestualizzare la location della scena successiva. Non è una caso se l’inquadratura finale di Il gusto del sakè (e di tutto il suo cinema), pur presentando una situazione analoga a quelle dei sopracitati Inizio di primavera e Viaggio a Tokyo, non è un esterno, ma rimane sulla schiena curva di Chishū Ryū, piegato dagli eventi del film e destinato a passare il resto della vita in solitudine per il bene della figlia.

Quando gli empty shots vengono usati in questo modo, ovvero per designare un cambio di ambientazione, Ozu crea spesso associazioni ricorrenti tra le nature morte e un dato luogo, usando due o tre di queste inquadrature in sequenza e muovendosi dal generico (alcuni alberi, delle colline) allo specifico (un tempio caratteristico della data città) prima di far svolgere l’azione successiva. Ad esempio, in Crepuscolo di Tokyo, la sala di mahjong nella quale lavora la madre delle sorelle protagoniste è sempre introdotta dalle riprese di un ponte e di un palo della luce, mentre in Inizio di primavera la città di Mitsuishi è contrappuntata da immagini di ciminiere.

Tra gli elementi più ricorrenti all’interno di queste inquadrature intermedie, vi sono i treni. Presenti praticamente in ogni film di Ozu, sono utilizzati anche in maniera funzionale allo sviluppo narrativo o come simboli di un cambiamento nella vita di un personaggio. Ne sono esempi il viaggio a Kyōto che padre e figlia intraprendono in Tarda primavera e quello del padre in Fiori d’equinozio (Higanbana, 1958) che segna un ripensamento sul matrimonio della figlia. In Crepuscolo di Tokyo, i treni si fondono con un altro degli elementi principali delle nature morte di Ozu: gli orologi. Nella casa dove vivono Chishū Ryū e le due figlie si possono percepire a più riprese sia il passare di un treno che il ticchettio dell’orologio, in alcuni casi anche simultaneamente. In quest’opera, una delle più cupe e pessimistiche del tardo Ozu, l’orologio segna il destino dei protagonisti e in particolare quello di Akiko, la sorella minore, che finirà – non si saprà mai se per un tentativo di suicidio o per un incidente – con l’essere travolta proprio da un treno.