Concorso

Monster di Hirokazu Kore’eda

focus top image

Lo si potrebbe chiamare “prospettivismo koreediano”, quel tipico dispositivo che vediamo all’opera in molti dei suoi film secondo cui un oggetto o una storia, di cui credevamo di sapere tutto, cambia profondamente la propria natura nel momento in cui il punto di vista si sposta. Spesso quello che dall’esterno sembrava essere un crimine, dall’interno si trasforma in un gesto d’amore, o viceversa, come succedeva nell’ultimo atto di Shoplifter, quando lo sguardo dalle relazioni famigliari si spostava per assumere quello della polizia, e dove la vicenda da amorevole che era iniziava ad assumere i tratti inquietanti dell’ossessione, del raggiro e della patologia.

È forse per quello che Kore’eda è sempre stato interessato a quella forma di verità fittizia che è la verità processuale, in cui la realtà deve essere discorsivizzata e dove spesso – in quella selva di paradossi che è linguaggio – le cose si scambiano di posto e si invertono (come in Third Murder), lasciandoci smarriti a cercare di capire che cos’è appunto, la verità.

In questo Monster – che segna il suo ritorno in Giappone dopo la Francia de Le verità (2019) e la Corea di Broker (2022) – l’oggetto attorno a cui tutte le vicende prendono avvio e si dipanano è lo scenografico incendio di un “Hostess bar” che illumina la notte di Suwa, la piccola cittadina della provincia di Nagano dove si svolge la storia. Ma come sempre nel cinema di Kore’eda, ogni oggetto è pregno di simboli, e questo incendio è come se condensasse metaforicamente la tensione che scorre tra i diversi personaggi del film.

La prima tensione è quella tra la giovane madre vedova Saori (interpretata dalla sempre bravissima Sakura Ando) e il figlio Minato (Soya Kurokawa, l’ennesimo dei bambini prodigio del cinema del regista giapponese), che sembra comportarsi in modo sempre più enigmatico e sempre più strano. Dalle mezze parole del figlio, la madre deduce una storia di bullismo ai danni di Minato da parte del nuovo maestro elementare Hori. E l’incontro chiarificatore chiesto dalla madre con una strana preside traumatizzata per la recente morte della nipote e i comportamenti socialmente incomprensibili del maestro non fa che confermare le peggiori previsioni di Saori. Ma quando il punto di vista si sposta sul maestro Hori, le cose cambiano radicalmente: Minato non è colui che viene bullizzato ma colui che bullizza, trascinato dai propri compagni che prendono di mira il piccolo Eri, un compagno di classe reso insicuro dagli atteggiamenti sadici del padre che lo convince di aver avuto il proprio cervello sostituito da quello di un maiale. Ma la tensione è anche quella che c’è tra il personaggio della preside e un segreto inconfessabile del suo passato.

Ma nulla, appunto, è come sembra. E il vero fuoco che ha metaforicamente incendiato la rete di relazioni della cittadina giapponese è quello – freudianamente – della scoperta della sessualità da parte di Minato ed Eri, i cui episodi di bullismo, infierito o subito, nascondono in realtà un  intenso rapporto che va molto al di là di una semplice amicizia.

Il cinema di Kore’eda ha sempre molte frecce al proprio arco soprattutto dal punto di vista del coinvolgimento emotivo dello spettatore, eppure forse per via di una sceneggiatura non sua (di Sakamoto Yûji: era dal 1995 che Kore’eda non scriveva un proprio film) o per lo score musicale di Ryūichi Sakamoto, un po’ troppo eccessivamente ampolloso, risulta essere meno efficace in questo film rispetto alle sue opere migliori. La parte finale – quasi un film nel film – dove viene indagato il rapporto tra Eri e Minato, tra fluidità di genere e complicità infantile, esce un po’ dalle classiche comfort zone del regista, e ad alcuni ha ricordato Close di Lukas Dhont. Forse il tentativo che sta compiendo il regista giapponese in questi anni successivi al successo di Shoplifter è quello di trovare un registro e un approdo nuovo per il suo cinema, i cui contorni però sono ancora tutti in via di definizione.