Bertrand Tavernier, uomo di cinema

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Se n’è andato un signore che ha insegnato a guardare il cinema. Una cosa rara, preziosa, degna di un maestro. Bertrand Tavernier, morto il 25 marzo a 79 anni, è stato regista, critico, organizzatore di cineclub, storico, conservatore (era presidente dell’Institut Lumière di Lione, che ha dato l’annuncio del decesso). Soprattutto, è stato fin da bambino uno spettatore appassionato e poi un ragazzo e un adulto capace di diventare in maniera naturale un uomo di cinema.

L’ultimo post del suo blog risale al 29 gennaio scorso e ancora parlava delle ultime uscite in dvd con la passione di sempre, con quella che l’amico e critico Noël Simsolo, autore di un bellissimo libro-intervista a Tavernier dal titolo esplicativo, Le cinéma dans le sang, definiva «una cinefilia che non acceca». Il libro sul cinema americano che scrisse con Jean-Pierre Coursodon, 50 ans de Cinéma américain, è ancora oggi uno splendido testo per imparare a guardare i film e i film soltanto, il loro discorso formale e il loro sguardo sulla realtà, senza considerarsi parte della visione.

Il contrario di quello che succedeva in uno dei film più inafferrabili di Tavernier, La morte in diretta (1980), strano caso di fantascienza senza fantascienza, per un regista amante del genere, della letteratura e del cinema popolare, in cui una camera impiantata negli occhi di un reporter filmava gli ultimi giorni di una malata terminale. Di quel film, e in particolare della sceneggiatura di David Rayfiel, Tavernier diceva di non riuscirne quasi a cogliere il mistero, «come se ogni frase scritta da Rayfiel avesse un altro senso dietro il suo senso apparente».

Tutto il cinema di Tavernier, che esordì nell’74 con L’orologiaio di St. Paul, tratto da un romanzo di Simenon e feroce ritratto del fallimento di un piccolo borghese, è stato in fondo un unico discorso portato avanti in varie forme apparenti: dal presente alla Storia, dalla Francia agli Stati Uniti, dal cinema realista a quel cinéma de papa che tanto faceva arrabbiare i giovani turchi e che invece Tavernier – che pure di Godard, Truffaut e compagnia fu uno dei primi promotori con i cineclub degli anni ’60 – apprezzava e trattò sempre con ammirazione, sia quando ne ricostruì le vicende durante l’occupazione nazista (in Laisser-paisser, 2002, che ha per protagonisti Jean Devaivre, Jean Aurenche, Pierre Bost, Maurice Tourner, Claude Autant-Lara), sia quando raccontò la sua storia del cinema francese in Voyage à Travers le cinéma français, nel quale esaltava la libertà formale dei film che vedeva da ragazzino e riscopriva registi come Edmond T. Greville, Jean Sacha, John Berry.

Cercare una poetica d’autore in Tavernier è forse un esercizio superfluo rispetto al riconoscimento, prima di tutto, di un piacere del racconto e dell’affabulazione che conduce a una riflessione sul rapporto dell’uomo con il mondo e con l’assurdità della Storia, del potere, della violenza, così come dei desideri e delle pulsioni. Se in L'orologiaio di Saint-Paul, in Che la festa cominci... (1975) e Il giudice e l'assassino (1976), tutti dominati da uno straordinario Philippe Noiret, prevale un discorso imperniato sulle dinamiche di potere che regolano i rapporti di classe e di sesso, più avanti la dimensione intimista di Una settimana di vacanza (1980), girato nella sua Lione, Una domenica in campagna (1984), splendido racconto impressionista in un assolato pomeriggio d’inizio ’900, e Daddy Nostalgie (1990), struggente racconto di morte e affetti ritrovati, ma anche di ’Round Midnight - A mezzanotte circa (1985), omaggio al jazz americano, mostrano un senso del pudore e una malinconia che nel capolavoro La vita e nient’altro (1989), storia di un comandante dell’esercito francese (ancora Noiret) che al termine della Grande guerra stila le liste dei dispersi, incontra felicemente la riflessione sulla memoria e sull’impotenza del singolo di fronte alla follia umana (com’era già d’altronde in Quarto comandamento, 1988, tra le più accurate ricostruzioni del Medioevo viste al cinema).

Nel finale di quel film, il post-scriptum della lettera con cui il comandante Delaplane si congedava dall’amata Irène – «PS: Queste sono le mie terribili statistiche finali: in confronto alla durata della marcia della vittoria alleata lungo gli Champs Elysées, circa tre ore, ho calcolato che con la stessa velocità, lo stesso passo e le stesse formazioni militari, la marcia di chi è morto in questa inspiegabile follia sarebbe durata 11 giorni e 11 notti. Perdonate la mia precisione. Vostro, per la vita» – rendeva in maniera struggente il senso di stupore di un uomo qualsiasi per il disprezzo della vita e la naturalità della morte (una visione poi ripresa in maniera ancora più secca nell’altro film di Tavernier ambientato durante la Prima guerra mondiale, Capitan Conan, 1996).

Lo stesso stupore Tavernier l’avrebbe poi utilizzato ironicamente per raccontare i giovani e insensibili assassini dell’Esca (1995), contestatissimo Orso d’oro a Berlino, che a sua volta era un ribaltamento quasi grottesco della cronaca casuale e brutale di Legge 627 (1992), tra i film più crudi e sottovalutati degli anni ’90, che nel racconto della quotidianità in una sezione della narcotici asciugava di ogni orpello narrativo la tradizione del noir americano già abbracciata in Colpo di spugna (1981), ambientato nel Senegal del 1938 ma tratto da un romanzo di Jim Thompson, e ripresa in In the Electric Mist - L’occhio del ciclone, 2009, girato nelle paludi della Louisiana e incontro ideale con l’amatissimo Jacques Tourneur (il cui cinema per Tavernier possedeva un’atmosfera autunnale che cercò di replicare in quasi tutti i suoi film).

Gli stessi detour geografici e temporali di Tavernier – in un passato letterario come in Eloise, la figlia di d'Artagnan, 1994, omaggio a Riccardo Freda di cui era stato collaboratore, e in La princesse de Montpensier, 2010, o semplicemente dall’altra parte del mondo, come in La piccola Lola, 2004, film espressione di quell’anima documentaria e pedagogica a cui appartengono anche Ricomincia da oggi, 1999, girato in una scuola della campagna francese, e volendo anche Quai d'Orsay, 2013, girato nel Ministero degli esteri francesi – sono gli effetti di una voluttà di sguardo, di attenzione e d’amore per la vita e per i suoi risvolti a comici, avventurosi o sentimentali, alimentata dalla semplice passione per il cinema e dal dialogo continuo fra le due dimensioni.

Il suo viaggio nel cinema francese, che dopo la presentazione a Cannes nel 2017 divenne grazie a Thierry Frémaux, direttore dell’Institut Lumière, una serie in nove episodi, Tavernier lo aveva dedicato ai due registi più importanti per la sua carriera: Jacques Becker, il primo scoperto e il più amato, e Claude Sautet, l’amico di una vita. Al termine del film, però, una lunga lista di nomi di altri registi, di attori, sceneggiatori e gente di cinema funzionava da ringraziamento collettivo, non solo verso amici, colleghi, maestri, compagni e compagne di strada e tutto il piacere che avevano dispensato. A suo modo quella lista era un congedo dal cinema francese, e ora che Bertrand Tavernier non c'è più la sola cosa che possiamo fare è aggiungere il suo nome alla lista e ringraziare anche lui per tutto quello che ci ha regalato.