Cecilia Mangini, la necessità dell'inquadratura

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Giovedì 21 gennaio è scomparsa Cecilia Mangini, regista, sceneggiatrice, fotografa e saggista nata a Mola di Bari nel 1927, considerata la prima documentarista donna del cinema italiano. In coppia con il compagno di vita e di lavoro Lino Del Fra (1927-1997), Mangini ha raccontato le trasformazioni politiche e socio-culturali del dopoguerra, raccontando le periferie del dopoguerra e la condizione delle classi disagiate in film come Ignoti alla città (1958), La briglia sul collo (1974), La canta delle Marane (1960, ispirato da Ragazzi di vita di Pasolini) e Stendalì - Suonano ancora (1960). Con All'armi siam fascisti! (1960) con Del Fra e Lino Micciché è stata la prima a realizzare una riflessione visiva sul regime fascista, per poi analizzare la figura di Stalin in La statua di Stalin (1963). In Comizi d’amore '80 aveva invece toccato i temi della sessualità e dell’aborto. Nel 2013 era tornata al cinema con In viaggio con Cecilia, realizzato con Mariangela Barbanente (rimandiamo a numero 536 per un lungo servizio sul film e un’intervista alle due autrici) e recentemente al Torino Film Festival aveva ricevuto il Premio Maria Adriana Prolo per il suo ultimo lavoro Due scatole dimenticate - Viaggio in Vietnam.

Per ricordare Cecilia Mangini pubblichiamo un estratto di un testo scritto dalla regista per Cineforum (n. 124/125, luglio/agosto 1973) a proposito del film La torta in cielo (ispirato a una fiaba di Gianni Rodari) e alcuni dichiarazioni tratte da un’intervista di Valentina Alfonsi a Mangini e Mariangela Barbanente, a proposito di In viaggio con Cecilia (n. 536).

La sceneggiatura si è dissolta (a proposito di La torta in cielo)

È stato come riprendere in mano un fossile. La sceneggiatura comincia a morire con il primo ciak, che è poi la prova della sua vitalità: essere cioè trasformata dalla regia in qualcosa d'altro, di più ricco e autentico (sempre che la regia non si limiti - come a volte accade - a un esercizio di trascrizione).

Al primo colpo di moviola, poi, la sceneggiatura è già un fossile. Ha dato tutto quello che poteva dare. È dentro le immagini del film. Ecco perché dico fossile. Un osservatore interessato da un fossile può ricostruire un mondo e il suo processo di creazione. Il fossile sceneggiatura è un momento quanto mai utile per ripercorrere il processo di realizzazione di un film, fino alla sua finale individuazione. Così, riprendendo in mano la sceneggiatura della Torta in cielo, ci si accorge facilmente dell'abbaglio di quanti (magari per spiegare il perché di un film continuamente ostacolato in tutte le sue fasi di realizzazione) hanno parlato di film maledetto, cioè di film difficile, per pochi; di discorso per addetti ai lavori (cinematografari e politici). Bene, il fossile spiega invece che l'origine della maledizione sta esattamente nel contrario: nello sforzo costante di scrivere non per un pubblico elitario ma per tutti, facendo saltar via diaframmi e astratte distinzioni generazionali. Questo tentativo, la sceneggiatura lo dimostra – direi – a ogni pagina, raccattando senza paura anche stereotipi di certo cinema tradizionale, piegati, stravolti, beninteso, ad altri fini. All'interno di un discorso che tende, per quanto possibile, a non coinvolgere emotivamente chi guarda, le meccaniche di spettacolo assumono così obiettivamente una funzione estraniante: meccaniche; appunto, per far scattare la storia, e dunque l'attenzione, ma così volutamente scontate, indifese nella loro meccanicità, da risultare, credo, non distraenti: usate per favorire una partecipazione straniata, critica nei confronti del significato del racconto.

Per questo il film in cui la sceneggiatura si è dissolta è “maledetto”. Una “maledizione” che gli deriva proprio dalla sua facilità come totale accessibilità. Di qui i tentativi di censura, prima alla sceneggiatura, poi durante le riprese, e infine le manovre per impedirne l'uscita o relegarlo in un ghetto balneare. Insomma, chi doveva incazzarsi, si è visibilmente incazzato.

Cecilia Mangini

In viaggio con Cecilia (dichiarazioni di Cecilia Mangini)

«Quando ho cominciato a fare cinema c’era una necessità di inquadratura, un termine che mi pare più preciso di immagine: nel perimetro, nella superficie del fotogramma c’è la necessità e la precisione che si trova nei quadri. Qualcosa di voluto e costruito. Una costruzione di certo spontanea, che viene dal di dentro, ma che dà anche informazioni ben determinate su ciò che lo spettatore vede. Erano molti anni che non giravo prima di In viaggio con Cecilia, sapevo bene che alla mia età si trattava di una sfida, ma fare l’inquadratura è un dato culturale e l’ho riconosciuto come un gesto spontaneo e bellissimo, fin dal primo giorno, in modo energico».

«Nel film c’è una citazione da Antonio Gramsci tratta dalle lettere dal carcere indirizzate a Tania. Sento un intimo legame con la sua visione: l’ottimismo della volontà e il pessimismo dell’intelligenza. La speranza è necessaria ma è sempre un punto interrogativo, un’aspettativa senza certezza. Da ragazzina mi sono formata su Gramsci, grazie all’iniziativa di Editori Riuniti che in quel periodo decise di ripubblicare Gramsci in modo ordinato e tematico: gli intellettuali, il Risorgimento, la condizione operaia. C’erano ancora dei passi censurati ma per me è stata un’esperienza fondamentale. La lettura che Gramsci dà della politica, delle realtà, della cultura italiana è una mappa completa. Poi si può anche dissentire ma stiamo ancora aspettando che qualcuno raggiunga una tale completezza di visione. Citarlo era fondamentale, un messaggio indirizzato a me stessa».

«Io mi ritengo una documentarista. Anche se, certo, il cinema è sempre e tutto cinema, senza distinzioni. Però il documentario ha una sua peculiarità: essendo povero, è più libero rispetto al film di finzione e all’inchiesta. E penso che fossimo più liberi noi, negli anni 50 e 60. I produttori non interferivano, o lo facevano in modo inconsistente, con raccomandazioni e non con ordini. Oggi mi sembra che, da parte di chi produce e a volte addirittura degli esercenti, vengano delle imposizioni più pesanti ma il documentarista può difendersi perché non ha su di sé il peso di dover creare qualcosa di assoluto successo commerciale. Spesso la critica non lo racconta ma questa è un’arte che lavora con le manette e la palla al piede. Sì, io mi sento una documentarista perché ho la libertà di dire ciò che è importante dire in questo momento. Qualcosa che, anche se legato a fatti ed eventi particolari, mantenga la sua validità per sempre, che sia esemplare e continui a esserlo».

«Io non credo nelle differenze generazionali: generazione è un termine molto comodo, un termine romantico. Si dice spesso che i giovani hanno sempre ragione, ma non è così. Credo piuttosto nella differenza culturale, che continuamente si rinnova e qualche volta arretra: non sempre il progresso produce un movimento positivo, esistono anche dei momenti di indietreggiamento forte della cultura. Oggi vedo tante opere coniugate in modi artefatti e sento la mancanza di scrittori o autori di cinema nei quali la società riesca davvero a riconoscersi. Eppure ricordo che per me andare al cinema era un momento di consapevolezza, di formazione: penso al Neorealismo, a cosa hanno contato Federico Fellini, ma anche Mario Monicelli, Damiano Damiani, Luigi Comencini. E Alberto Sordi, che ha raccontato un’Italia che continua a essere più sordiana che mai».