Retrospettiva

Mirage de la vie: Portrait de Douglas Sirk di Daniel Schmid

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La 75° edizione del Festival di Locarno ci regala una magnifica retrospettiva del regista tedesco Douglas Sirk, tra cui spiccano alcune perle imperdibili per i cinefili. Una di queste è Mirage de la vie: Portrait de Douglas Sirk, un’intervista di un’ora scarsa realizzata in 16mm a Lugano nel 1983, negli ultimi anni di vita del regista, mai proiettata prima. Un film “pirata” come l’ha definito Renato Berta nella presentazione in sala, perché letteralmente “rubato” e non si sa bene cosa sia e a chi appartenga. Berta stava girando a Milano Il bacio di Tosca con il regista Daniel Schmid, e un giorno quest’ultimo lo avvisa che si fermeranno prima a Lugano perché aveva scoperto che ci abitava Sirk. “Tanto la pellicola ce l’abbiamo”, gli dice. Grazie a questa improvvisata iniziativa, possiamo oggi guardare e ascoltare quest’uomo colto e “dai molteplici talenti”, come si definisce egli stesso.

Un ritratto illuminante e intimo, girato nella casa del regista, con accanto l’onnipresente moglie Hilde, posizionata appena fuori dall’inquadratura, pronta a intervenire e arricchire il suo racconto o a riportarlo sul tema quando lui divaga. Sirk, che ha il grande rammarico di avere perso quasi interamente la vista, è elegantemente vestito e indossa perlopiù degli occhiali da sole, forse per schermarsi dalle luci necessarie alle riprese. Ha voglia di raccontare se stesso, il suo cinema, e rivela anche una certa insospettabile ironia per colui che viene ritenuto tra i maestri del melodramma. Come quando parla dell’inamovibile ottimismo degli americani, secondo i quali non si possono avanzare dubbi o timori in relazione a qualcosa. Un ottimismo che, in realtà, significa posticipare all’indomani le preoccupazioni, in un costante rinvio che tradisce la loro mancanza di storicità e la loro indole di eterni fanciulli.

Da questa conversazione emergono molti temi cari a Sirk e onnipresenti in tutti i suoi film. Come il fatto di eleggere a protagonisti i personaggi immorali piuttosto che quelli dalla rettitudine esemplare, oppure figure con una personalità “split”, ovvero che contengono i due lati della medaglia, perché egli stesso si sente così, una persona che racchiude entrambe le valenze. Parla poi delle strutture narrative circolari che lui riconduce, non tanto al cerchio come simbolo di perfezione, ma a una simbologia più antica di morte che gli aveva spiegato suo padre da bambino. Infatti, il regista attribuisce al cerchio una circolarità conclusa in se stessa, che finisce per essere una gabbia senza possibilità di fuga. Non mancano osservazioni sugli specchi a lui cari, che pretendeva fossero sempre presenti nelle sue scenografie.

Nella densità del suo eloquio e della sua consapevolezza artistica, però, la risposta di Sirk che più ci ha toccato è quella alla domanda sul perché le sue inquadrature vengano fatte spesso attraverso delle finestre, come a mettere una cornice dentro il fotogramma. Ed egli racconta di quando, la notte di natale del 1937, senza avvisare nessuno, parte con la sua seconda moglie ebrea da una Germania sempre più pervasa dal nazismo. Lasciano la propria casa e tutto quanto possedevano, partendo con una sola valigia e uno zainetto. Da quella carrozza di terza classe, prenotata per nascondersi meglio tra la folla, vedevano sfilare davanti ai finestrini le case illuminate dagli alberi di natale e immaginavano le atmosfere festose dietro quei vetri. La successiva estetica delle finestre nel suo cinema nasce così, poeticamente, da un ricordo struggente, l’abbandono coatto della sua terra e delle sue radici.