Ritorno su un’affinità selettiva postata qualche mese fa, quando A proposito di Davis venne presentato al Torino Film Festival. Allora la citazione letteraria veniva da Underground di Vladimir Makanin, librone che racconta il galleggiamento esistenziale di uno scrittore nella Russia dei primi anni ’90 e che in maniera abbastanza sorprendente condensava in poche righe il senso di molto cinema dei Coen. In particolare, il passaggio era dedicato alla figura solitaria e grottesca dell’uomo nel corridoio: «È come se tutti gli uomini del mondo, e io non sono l’eccezione», diceva il protagonista-narratore, «si fossero perduti in corridoi come questi, estenuandosi per il troppo vagare». E Llewyn Davis, nel film che porta il suo nome (roba non casuale, come vedremo), è l'uomo nel corridio per eccellenza, solo, inutile, rabbioso, inetto, serio, serissimo, ma fallito. Llewyn Davis non ha un soldo, non ha una casa, e spesso lo si vede stretto, quasi risucchiato, tra le linee rette di corridoi geometrici.
Così:
Oppure così:
Che per i Coen la geometria degli spazi racchiuda buona parte del senso di un film non è certo una novità: di cerchi, linee rette e oggetti «cui viene attribuito il compito di riassumere certi motivi ricorrenti che ai Coen stanno a cuore», come scriveva Bruno Fornara proprio su «Cineforum» ai tempi del Grande Lebowski (Gira, rimbalza e rotola, n 374, pp. 11-13), è stato pieno il loro cinema fino almeno a L’uomo che non c’era. Il cappello volante di Crocevia della morte (un cerchio), i corridoi dell’albergo di Barton Fink (altre linee rette, altri corridoi), le corsie del bowling del Grande Lebowski (corridoi pure loro, a guardar bene), le stesse palle da bowling e il tumbleweed ancora in Lebowski. E per restare alle forme circolari, il cerchione che si trasforma in disco volante in L’uomo che non c’era e ovviamente il cerchio di Mister Hula Hoop, «disegno che, da zero che è, diventa via via un hula hoop o un freesebee o un’aureola, a dimostrazione di quanto uno zero, un niente, il niente possano essere produttivi» (ancora Fornara).
Ai tempi del Grande Lebowski, poi, i Coen avevano l’abitudine di mettere dei nomi propri nei titoli dei loro film: Arizona, Miller, Barton Fink, Fargo, Hudsucker Proxy, Leboswski per l’appunto, e il primo a farlo notare – o almeno credo – fu proprio Fornara in quel suo articolo bellissimo e fondamentale per capire il cinema dei Coen.
Poi però aggiungeva: «C’è da scommetterci che ci saranno altri nomi propri nei prossimi film dei Coen»... C’era da scommetterci, in effetti, tutto sembrava farlo credere, ma alla fine non andò così: perché dopo Lebowski, che di tutti i personaggi dei Coen era l’oltre-uomo, l’uomo oltre il niente, oltre l’identità stessa sancita da un nome, è arrivato l’uomo che non c’era – cioè un passo ancora oltre, un passo nel nulla – e dopo quel film i Coen hanno abbandonato i nomi propri nei titoli. A essere sinceri, a un certo punto hanno smesso anche di usare la geometria dello spazio come elemento concettuale. In Non è un paese per vecchi, addirittura, la proverbiale linearità del loro cinema veniva spezzata come l’osso di un braccio: uno stacco netto, una deviazione.
Così:
Certo, era pure quello un tipico espediente coeaniano, l’oggetto, addirittura il corpo, che si fa racconto e sua ridefinizione. Ma nel frattempo il loro cinema (il loro cinema migliore, anzi) aveva perso qualcosa e guadagnato qualcos'altro. In meno c’era la precisione dello sguardo, la sua geometria per l’appunto, mai stata sinonimo di freddezza ma al contrario tramite di un ragionamento tragico e grottesco sul destino dell'umanità; in più, invece, in modo forse complementare (geometrico?), c’era l’insinuarsi di una inattesa componente malinconica, pietosa addirittura, sia nei monologhi dello sceriffo Tommy Lee Jones, presi letteralmente da McCarthy, sia nell’impotenza di un povero Giobbe qualsiasi come Larry Gopnik.
Ed è forse per questo, perché fa incontrare le due componenti del (miglior) cinema dei Coen, che A proposito di Davis è il loro film più derivativo (o se volete già visto, già fatto) e insieme quello più commosso e commovente. Il film in cui tornano il nome proprio nel titolo e la geometria degli spazi, ma in cui né il nome né la geometria hanno la forza, o la voglia, di ricostruire le impalcature perfette, lucide e inquietanti come sculture iperrealiste, dei film degli anni ’90. Il fatto è che i due fratelli col tempo si sono fatti più svagati, sperduti, più distratti anche (e qualche film bruttino l'hanno fatto pure loro), ma insieme hanno anche scoperto un paradossale affetto per i loro eroi, uomini assenti, seri o risucchiati in corridoi, ma pur sempre uomini.
A proposito di Davis, in definitiva, è sì geometrico e lineare, ma mica sempre; ci sono anche momenti di cinema sobrio, poco o nulla concettuale, preciso non nella geometria ma nei particolari pietosi, come quello stacco di montaggio ripetuto tre volte sui piedi bagnati del povero Llewyn Davis dopo una camminata nella neve di Chicago. Non ricordo, francamente, che i piedi siano stati mai così bagnati o freddi al cinema. E in qual particolare c'è tutto l'affetto che i Coen provano per il loro eroe fallibile e fallito, non più oltre la Storia a galleggiare nel niente, ma dentro un preciso decennio del XX secolo (e i Coen, loro malgrado forse, restano i registi più novecenteschi in circolazione), nonostante la Storia e i decenni continuino a procedere verso il basso, beffardi e indifferenti come sempre.