Concorso

What Do We See When We Look at the Sky? di Alexandre Koberidze

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Il cinema è davvero una faccenda semplice, a volte. O almeno appare tale quando la concordanza – che forse così semplice non è – fra una vasta serie di elementi espressivi risulta in perfetto equilibrio. È il caso di What do we see when we look at the sky? del regista georgiano Alexandre Koberidze, già autore di un’opera notevolissima per libertà linguistica e originalità di sguardo come Let the summer never come again (2017) e fra i talenti più interessanti del cinema europeo.

Il film racconta una specie di favola, sospesa fra realismo magico e commedia romantica, ma non somiglia per niente a nessuna di queste due cose. E più che una narrazione in senso tradizionale ricorda un movimento, un attraversamento di luoghi, spazi e temporalità che sembra cogliere le cose mentre accadono. Ma che soprattutto osserva le storie dei propri personaggi, che poi sono abitanti di un luogo quasi magico, la città di Kutaisi, della quale il film è una specie di sinfonia.

Lisa e Giorgi si incontrano (scontrano) casualmente un mattino mentre camminano lungo una via, hanno un fugace dialogo e poi ognuno prosegue per la sua strada, ma la sera succede di nuovo la stessa cosa e allora decidono che è una specie di segno del destino e si danno appuntamento per il giorno successivo in un altro luogo. La notte però – come un alberello, una grondaia, una camera di sorveglianza e un soffio di vento avevano predetto a Lisa – entrambi si svegliano con volti e corpi diversi. Si recano all’appuntamento ma non si riconoscono, cambiano vita continuando a gravitare intorno al luogo di quell’incontro mancato fino al giorno in cui un regista decide di metterli nel proprio film e hanno la possibilità di (ri)conoscersi di nuovo.

La trama, già di per sé bizzarra e ricca di fantasticherie, non può tuttavia raccontare da sola la freschezza e la sensibilità dello sguardo di Koberidze, capace di eleggere Kuitaisi a proprio luogo dello spirito e paese delle meraviglie, in cui ogni oggetto ha una vita e ogni spazio una storia. In cui i cani guardano le partite di calcio, le grondaie lanciano incantesimi e i palloni nuotano nel fiume. In cui in ogni angolo, viuzza e giardino si nascondono immagini e situazioni che sembrano fatte apposta per diventare cinema. E per questo la macchina da presa indugia, divaga e sembra restare sempre un po’ in disparte, non a raccontare la sua storia, ma come sottolinea la voce narrante del film – che parla dal punto di vista del regista – ad osservarla.

Come in un film muto, di cui Koberidze si dice grande appassionato, il gesto di filmare è un segno di appartenenza, una dichiarazione d’intenti, quasi una politica dello sguardo. Affine al cinema di Ioseliani – inevitabile citarlo per la provenienza geografica – e ispirato per sua stessa ammissione da quello di Kaurismäki, il regista esibisce in realtà uno stile estremamente personale e impossibile da ricondurre a qualsivoglia etichetta. Gira in 16mm misto a digitale, usa un cast in cui fa convivere amici d’infanzia, i propri genitori, grandi star del cinema georgiano e i bambini di Kuitaisi con assoluta maestria. Ma più di ogni altra cosa dimostra una rara sensibilità nel filmare gli spazi urbani (l’inquadratura con cui si chiude il film è fenomenale) e nell’estrapolare l’anima dagli oggetti, dai personaggi o dai panorami su cui fissa l’obiettivo.

Lasciando intatto lo stupore più genuino di cui è fatto il cinema. E non a caso nel finale del film è proprio il cinema a mettere a posto le cose, durante una proiezione in cui tutto diventa imprevedibile e misterioso e dove sullo schermo, per una volta, le cose appaiono più vere che nella realtà. Quella realtà nella quale si avverano gli incantesimi, i mondiali di calcio li vince chi vogliamo noi e le notti sono sempre notti magiche.