I pezzi del cuore: articoli, interviste, analisi e approfondimenti dall'archivio storico di Cineforum, scelti per te dalla redazione della rivista per la campagna Sostieni Cineforum
Per il Festival di Cannes del 1996 - l'edizione di Fargo, Le onde del destino, Crash, Good Bye South, Good Bye, Segreti e bugie, Verso il sole, Comment je me suis disputé... - Emanuela Martini scrisse uno splendido alfabeto delle cose viste, Cannes '96 dalla A alla Z, con brevi e illuminanti annotazioni che portavano dentro quei film e li illustravano per chi non li aveva visti. A quel numero di «Cineforum», il 355, anno 1996, è legato il ricordo di Roberto Manassero, all'epoca studente delle superiori, per il quale leggere i numeri dai festival (e in particolare quello da Cannes) era la cosa più attesa.
"Il pezzo di Emanuela faceva presagire la bellezza dei singoli film e al tempo stesso costruiva un'idea collettiva di cinema, di sguardo sul mondo. Per me, una vera e propria educazione al cinema. Ribadita, peraltro, in quello stesso numero, dai pezzi su Fargo di Bruno Fornara e Michele Fadda, A nord di Pulp Fiction e Il nulla che non c'è e il nulla che c'è, che mi avrebbero insegnato due diversi approcci critici, uno più intuitivo, coraggioso, capace di abbracciare l'intera storia del cinema, l'altro più filosofico, forse, e ugualmente ardito nel provare a scorgere dentro quel film - dentro ogni film - il segreto del cinema.", Roberto Manassero
C di CINEMA (pensarlo, ripensarlo, riscriverlo). Alcuni lo riscrivono fingendo di non pensarlo (i Coen), altri lo ripensano sotterraneamente per reinventarlo (Von Trier, che si rifà a Dreyer e a Sirk, Kaurismaki, che non dimentica mai le Ealing comedies e Frank Capra), altri lo pensano come fosse la prima volta, come un ponte sospeso sul vuoto (Mike Leigh e David Cronenberg). Alcuni lo ripensano, lo riscrivono e ce lo dicono. Bisogna essere molto sicuri di sé, molto coraggiosi, molto sorridenti, per non cascare nella "meta-opera" di gravosa, presuntuosa maldestrezza. Questi lo sono. Molto sicuro di sé: Peter Greenaway, che, sprezzante, apre The Pillow Book con i suoi soliti matematici deliri visivi (schermi dentro lo schermo, colore e bianco e nero, ieri e oggi, citazione d'obbligo giapponese, ad altezza tatami, e ideogrammi a pieno schermo, registri sonori sovrapposti, esibizioni cromatiche), per poi decollare in un melodramma che trascina tutti gli elementi della composizione artistica nelle spire della sua gelida passione. Molto coraggioso (e sa di esserlo): Al Pacino, star hollywoodiana che, "Looking for Richard", elabora una forma colta, autoconsapevole e divertentissima di docu-drama. Molto sorridente: Olivier Assayas, che con Irma Vep ci consegna un saggio filmato di teoria cinematografica, che ha la leggerezza e l'impeccabile provocazione della Nouvelle Vague, la grazia aerea e il movimento dei film di King Hu, la sofisticata naiveté dei serial del muto e le sacche di impossibilità amorosa (e forse cinematografica) dei francesi anni '90. La sua personalissima versione di Les vampires, con il bianco e nero rigato e frantumato, vale decine di pagine scritte.
V di VITA «La vita più bella è quella inventata" (Un héros très discret, applicabile anche a Le huitième jour, The Quiet Room e, alla sua maniera, Tre vite e una sola morte). «Scegliete la vita. Scegliete un lavoro. Scegliete una carriera. Scegliete una famiglia. Scegliete un cazzo di televisore gigante. Scegliete lavatrici, automobili, lettori cd e apriscatole elettrici... Scegliete il vostro futuro. Scegliete la vita... Io ho scelto di non scegliere la vita" (Trainspotting, smentita solo a parole ma non a fatti in Jude: «Tu puoi scegliere il tuo futuro»). «La vita vale la pena di essere vissuta anche se è insopportabile" (Comment je me suis disputé... , applicabile anche a La seconda volta, Beautiful Thing, Il prigioniero del Caucaso, e massimizzata in Secrets and Lies e Le nubi si allontanano).
E se Fargo fosse una prima risposta a Pulp Fiction? Avevamo conosciuto, in Pulp Fiction, un mondo a parte, molto esclusivo, con rapinatori, killer, ostaggi che esplodono in macchina, pugile assassino, spacciatore, ragazza dello spacciatore con anelli infilati persino sul "grilletto", e poi boss sodomizzato, ragazza adrenalinizzata al cuore, capitano che tiene per anni un orologio reliquia nel buco del culo e altra varia disumanità. Nel mondo di Pulp Fiction non c'era uno che appartenesse all'altro mondo cosiddetto normale.
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E adesso i Coen, i registi più geometrici e razionali del cinema americano, rispondono a Tarantino con un film tutto acutezza e precisione. Per certi versi i Coen sono d'accordo con Pulp Fiction. Resta assodato l'avvenuto scivolamento verso il basso di mondo e umanità, ma con qualche decisivo distinguo. Fargo è un bianco noir: assassinii ripetuti su sfondo piatto e bianco di neve. In Fargo, ritroviamo tali e quali gli abitanti del mondo pulpista: i due killer rappresentanti del mondo inorganico vengono dritti dall'album delle figurine tarantiniane. Uno parla e parla, l'altro è silenzioso, ammazzano senza problemi, addirittura il laconico fa passare il cadavere del loquace in una macchina per triturare il legno e lo riduce a polpa, a macinato umano. Più pulp di così. L 'immagine del bestione taciturno accanto alla macchina trituratrice dal cui imbuto spunta una mezza gambetta con piede è un modo esplicito di richiamare il modello Pulp Fiction. Ma stavolta i killer non sono soli. Intorno a loro c'è l'altro mondo. Ad affrontarli c'è una poliziotta che sta per diventare mamma. I killer tiituratori e inorganici non giocano la partita in casa, nell'acquario pulpista. Sono in trasferta e hanno contro la mamma poliziotta.
Una parola di troppo, una parola di meno, una parola che non dice. Come questa vicenda, così perfetta e così imperfetta, una "storia vera" ma senza senso. E vero che i Coen hanno ideato una sceneggiatura calibratissima che sembra controllare tutto, ma non bisogna dimenticare che l'intero film è costruito su scampoli narrativi allo stesso tempo indipendenti e legati tra loro, ma comunque incompiuti. Ogni porzione di racconto è colta in medias res, e non si va molto oltre. Quando Jerry arriva a Fargo già molto si è deciso, ma nessuno ci darà mai una spiegazione esaustiva del suo fallimentare progetto finanziario; dello svolgersi del sequestro ci vengono fornite poche notizie, e il gesto omicida finale non è causato da una motivazione plausibile. Tutto risulta raggelato, come la vita familiare di Marge. Sembra una narrazione tradizionale, ma in realtà non ha sviluppo e non porta da nessuna parte. Quasi che la distesa nevosa imponesse unicamente questo winter tale, che dice tanto ma non dice tutto per dire qualcosa, o che non dice nulla per dire "il nulla".
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Il film inizia, e allora si scopre subito che il bianco è lì per invadere tutto, coprendo lo schermo e strabordando dalle cornici. In altri termini, c'è uno scarto irrisolto tra il troppo piccolo e il troppo grande, perché il quadro del Minnesota (in realtà North Dakota) che i Coen ci forniscono ha al massimo le dimensioni di una cartolina, anzi di un francobollo. In effetti, solo uno sguardo che non vede tutto (in un Minnesota che non c'è) poteva contemplare il nulla, il vuoto che Joel - una volta tanto senza giri di parole - ammette di voler rappresentare ("The key thing about the exteriors was that we couldn't see the line between the sky and the snow").