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Per i suoi 25 anni è tornato in sala Il grande Lebowski, finto noir cult e nichilista dei fratelli Coen, rotondo e pieno come una boccia da bowling, che continua ancora oggi a ruzzolare e rimbalzare sul nulla. Presentato in anteprima al Sundance Film Festival e poi al Festival di Berlino, così ce ne parlava Bruno Fornara in uno speciale alla sua uscita in Italia nel maggio 1998...
C'era da aspettarselo. I Coen, funamboli del gioco nichilista, sono affezionati ai nomi propri: anche Il grande Lebowski ha nel titolo un nome proprio (di due persone). Il nome nel titolo serve a indicare con precisione che quella persona lì è proprio lei, che quel posto lì è proprio lì. (O no?) La cosa è stata più volte segnalata: ad esclusione del primo Blood Simple, i Coen hanno sempre dato ai loro film un titolo (un nome) con dentro un nome di persona o geografico. Si va da Arizona Junior (nome di luogo attribuito a persona), a Miller's Crossing (nome di persona attribuito a luogo), a Barton Fink (nome e cognome), a The Hudsucker Proxy (nome di persona e ditta), fino a Fargo (nome di luogo e diligenza) e adesso a questo, doppio e grande, Lebowski.
Ci aspettavamo anche che i protagonisti della storia fossero stravaganti e che alcuni personaggi fossero perfettamente scemi, visto che i Coen hanno eletto da sempre le stranezze e le stupidità umane a terreni adatti per coltivarvi la loro lussureggiante vegetazione narrativa. Eravamo altresì sicuri di incontrare dei personaggi laterali che, appena affacciatisi nella storia, ne sarebbero subito usciti (come l'umanissimo e falsissimo coreano Mike Yanagita di Fargo, l'unico che quasi riesce a infinocchiare la poliziotta Marge): e qui ce n'è una quantità, dal Jesus Quintana («Non si scherza con Jesus») di John Turturro che, per due volte, fa il suo numero e se ne va, fasciatissimo nella tutina viola; al Knox Harrington di David Thewlis (già filosofo cinico e nichilista in Naked di Mike Leigh), che sta nel film, artista del video, cranio rasato e baffettini, soltanto per ridere come uno scemo nello studio di Maude, pittrice scema ed encomiata per la sua arte "di natura vaginale"; fino al povero Donny di Steve Buscemi, che gira per tutto il film al traino di Dude e di Walter e trova la sua ragion d'essere narrativa soltanto alla fine quando, in questo finto noir pseudochandleriano con neanche un morto ammazzato, è l'unico a crepare, e non di pistola ma di attacco di cuore, e finisce in cenere.
C'era anche da aspettarsi che, come in altri film dei Coen, ci fosse il rapimento di qualcuno: perché chi è rapito lascia, di solito, un vuoto; perché i rapimenti contribuiscono dunque all'allargamento dello spazio del nulla; perché il nulla, in un finto noir pseudochandleriano, si allarga a dismisura se ti viene il sospetto che il rapimento sia un finto rapimento; e infine perché tutto diventa decisamente un grande e indistinto nulla se neppure si riesce ad essere sicuri che il finto rapimento è almeno un finto rapimento. (A questo punto, The Big Lebowski è diventato una specie di rievocazione di quel The Big Sleep dove da un certo punto in poi non si capisce più nulla della storia tanto che, come ben si sa, il Marlowe di Bogart è portato a constatare come ci siano «così tante pistole in giro per la città e così pochi cervelli»).
Ci aspettavamo infine che ci fosse almeno un oggetto, una palla da bowling o un tumbleweed, cui venisse attribuito il compito di riassumere certi motivi ricorrenti che ai Coen stanno a cuore, come era già successo con il cappello volante di Crocevia della morte, con il quadro della ragazza sulla spiaggia in Barton Fink o con il disegno del cerchio in Mister Hula Hoop, disegno che, da zero che è, diventa via via un hula hoop o un freesbee o un'aureola, a dimostrazione di quanto uno zero, un niente, il niente possano essere produttivi.
Ci aspettavamo insomma che Il grande Lebowski fosse, come sempre con i Coen, ricco di segnali e suggerimenti, riferimenti e invenzioni. Eravamo preparati. Eppure siamo rimasti interdetti nel constatare come nel film ci siano molte ma molte più cose rispetto alle tantissime che eravamo sicuri di trovarci. I Coen hanno gonfiato il Grande Lebowski fin quasi a scoppiare. L'hanno fatto rotondo e pieno come una boccia da bowling. E dire che è un film nichilista, che ruzzola e rimbalza, come gli altri dei Coen, sul nulla.
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Questo film è frequentato da parecchi nichilisti: c'è un nichilista addormentato vicino alla piscina del miliardario («Dev'essere faticoso», commenta Dude); c'è una squadra di picchiatori scemi che parlano con forte accento tedesco e si autodefiniscono nichilisti, guidati dal Peter Stormare già killer laconico in Fargo. Si doveva partire di lì per dire che i Coen giocano sulla versatilità del termine nichilismo: c'è un nichilismo cretino, quello esibito dai picchiatori (Dude: «Continuavano a dirmi che non credono in niente»), e un nichilismo alto e appartato, quello dentro cui rotola il grande Dude Lebowski. Il nichilista giusto, anzi "compiuto" (stando alla definizione di Nietsche), ha capito che il nichilismo è la sua unica chance, sa che sotto c'è il niente, che non c'è fondamento né centro, che il soggetto è tramontato, eccetera, eccetera: è un oltreuomo, insomma. Si doveva poi accennare (solo accennare e rotolare via in fretta) al fatto che, quando esce un film dei Coen, sui giornali si leggono critiche caute e rimproveri del tipo: film simpatico e intelligente ma non c'è un briciolo d'anima, non c'è fondamento, non c'è centro, tutta superficie, troppe citazioni, pura macchina di divertimento, certo i Coen sono cinefili colti ma niente di più, neanche un po' di umanità…
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Si sarebbero quindi dovuti posizionare i Coen, grandi antiumanisti (Norville, Marge, Dude: si allunga la lista dei personaggi nichilisticamente positivi dei Coen), in una mappa del cinema concettuale e meontologico (che si occupa del nulla, che rotola sul nulla) contemporaneo. Volevamo disegnare tre continenti su questa mappa di registi nichilisti più o meno compiuti.
Ci sono, nel primo continente, i registi nichilisti compiuti e funamboli, senz'altro guidati dai Coen, che insistono nel gioco dell'esibizione dei simulacri in un mondo diventato favola dove nessuna realtà è più "vera". Viviamo di illusioni (e interpretazioni). Non possiamo permetterci di stare fuori dall'inganno dentro una verità che con l'inganno non abbia a che fare: pazienza, rotoliamoci sopra.
Oltre ai Coen, da queste parti sembrava abitare il Tarantino pulpista divertito, inorganico e sanguinolento, che però con Jackie Brown sembra essersi avvicinato al secondo continente (facendo contenti anche i critici umanisti: Tarantino è maturato), quello dei nichilisti incompiuti, che sono i registi che ancora, nonostante tutto, cocciutamente e con occhio lucido, vanno in cerca di una qualche (introvabile?) realtà profonda dentro ciò che l'uomo sta diventando, è già diventato nell'epoca del nichilismo. Qualche nome: Aki Kaurismaki, Mike Leigh, Ken Loach (che sta a metà strada e di tanto in tanto si lascia risucchiare dalle utopie delle "grandi narrazioni", tipo "la storia" o "il comunismo"), il nostro Moretti (che alle “grandi narrazioni” guarda per staccarsene portandosele dietro), poi certi registi e registe francesi, come Assayas o la Breillat.
Ci sono infine, su un terzo continente, i registi nichilisti che sentono il nichilismo, il vuoto e il nulla come mancanza e li vivono con disperazione tragica. E qui bastano i nomi di Cronenberg, di Ferrara o dei nostri Ciprì e Maresco.
Nella mappa, un posto a parte, su un piedistallo, sarebbe stato riservato al più compiuto oltreuomo fra tutti, Clint Eastwood, l'unico capace di conciliare i fantasmi del tramontato umanismo con il sorgente, già sorto, nichilismo più cristallino dentro uno stile talmente puro e semplice da sembrare dandistico in un film come Mezzanotte nel giardino del bene e del male.
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Doveva andare così ma l'articolo invece è rotolato da un'altra parte. La mappa intera non c'è: c'è solo questo abbozzo.
Palla da bowling contro i birilli: il risultato di volere film "umani" è che un buon film medio come Full Monty diventa un caso, diventa il film di cui tutti, critici opinionisti politici sindacalisti parlano per mesi. E uno straordinario pacchetto di film nichilisti oltreumani, compiuti o incompiuti, Kundun, Mezzanotte nel giardino del bene e del male, Jackie Brown, Totò che visse due volte, Will Hunting genio ribelle, questo Grande Lebowski, vengono archiviati burocraticamente e senza particolare calore, quando non apertamente sconsigliati. Così rotola il nostro vecchio mondo, pieno di umanisti.