Sostieni Cineforum | Munich tra Spielberg e Pirandello

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pezzi del cuore: articoli, interviste, analisi e approfondimenti dall'archivio storico di Cineforum, scelti per te dalla redazione della rivista per la campagna Sostieni Cineforum

Per riflettere sull'impatto dell'11 settembre sul cinema americano, in forme e stratificazioni diverse, Andrea Chimento ha scelto come suo pezzo del cuore un'analisi a cura di Luca Malavasi di Munich (2005) di Steven Spielberg: uno dei film con cui il regista americano fa i conti con l'11 settembre, chiudendo con un punto interrogativo nell'imponente skyline newyorkese, dove, un po' defilate, svettano le Torri gemelle. Ancora lì...

 

Cineforum, n. 452 - 2006

 

Spielberg / Pirandello, violenza e identità

 

Luca Malavasi

E alla fine anche Spielberg ha fatto il suo film sull’11 settembre, risalendo indietro nel tempo e nella storia, non però alla ricerca (presuntuosa) di un’origine ma, piuttosto, di un antefatto, o forse più semplicemente di una metafora, per scrollarsi di dosso la retorica del presente e tentare un discorso sull’attualità meno compromesso con la cronaca. Nell’ultima inquadratura di Munich le torri gemelle sono lì (ancora lì), un po’ defilate alla sinistra dell’inquadratura, non più alte né imponenti degli altri grattacieli dello skyline: l’attenzione della macchina da presa e dello spettatore devono essere ancora dirottate sullo spettacolo del crollo. Eppure, come scrive James Baldwin in un bellissimo, doloroso romanzo del 1960, «Un altro mondo», le torri – tutte le torri di New York – avevano già cominciato a cadere («Ogni giorno della settimana»), anche se, per ora, soltanto sulla testa dei poveri e dei derelitti. Nel 1972, l’anno delle Olimpiadi da cui prende le mosse il racconto di Spielberg, qualcosa in quel crollo perpetuo accelera improvvisamente, anche se forse, ancora una volta, sono soprattutto i dimenticati e i senza nome ad accorgersene e a portarne le ferite. Tra questi c’è anche l’Avner protagonista, che di nomi è costretto a cambiarne un numero imprecisato, che è “ufficialmente” uno sconosciuto per i suoi stessi datori di lavoro, che uccide nel nome di una Patria in cui però, alla fine, non solo è impedito a tornare ma da cui è anche rifiutato come traditore.

Ma se nell’ultima inquadratura Avner oscura con il proprio corpo e la propria storia il paesaggio, trasformando lo spettacolo dello skyline in una specie di fondale piatto e irreale, non è soltanto perché le precedenze dei “piani” sono, al momento, anche solo da un punto di vista cronologico, queste. Spielberg, che ci ha abituato da tempo a un racconto della Storia al singolare, sempre intelligentemente al riparo dall’affresco collettivo, ha capito che le principali ragioni dei conflitti che hanno cambiato gli equilibri internazionali negli ultimi decenni (ma forse da sempre) nascono da qui: da un figlio orgoglioso – un nome e un volto anonimi – che rinasce da un crollo reale e simbolico e, improvvisamente, esce dal branco e comincia a lottare per vendicare («Vengeance» è il titolo del romanzo da cui è tratto Munich) il proprio nome infangato, la memoria dei propri padri e della propria Patria. La storia, per Spielberg, non è nuova: tutto il suo cinema ruota attorno ad alcuni nuclei tematici che hanno nella crisi della struttura famigliare, nei rapporti più o meno dolorosi e difficili tra padri e figli e nella separatezza dalle proprie origini simboliche e materiali le loro figure più ricorrenti. Ma questa volta, complice il geniale drammaturgo ebreo e omosessuale Tony Kushner, quello di Angels in America, il regista estrae da questi temi tutto il loro potenziale politico e “guerresco”, confinando e in un certo senso liquidando in un quarto d’ora di blob cine-televisivo il racconto dell’evento storico che innesca la trama, e tenendosi per sé le altre due e mezzo di film, per raccontare una storia che parte da lì – da Munich, appunto – ma che subito diventa altro, assumendo l’andamento di una discesa infernale nella mente e nella “routine” di tutti i migranti e i dispersi che imbracciano le armi per contestare o rivendicare una proprietà e un’appartenenza. Ne esce un romanzo psicologico sottile e insinuante, dove tutto si rovescia nel suo contrario per rivelare – senza insegnare o dimostrare nulla – la perversione del circuito chiuso e insanguinato della vendetta “orizzontale”, compiuta con gli stessi mezzi dell’offensore, senza salti “di qualità” ma solo di quantità. In cui domina l’aritmetica e dove c’è da dimostrare di essere “forti”, non giusti (e del resto l’unico discorso sulla giustizia, che mescola Hegel e Marx, è recitato in tedesco da una strampalata profetessa fumata e avida in un edificio fatiscente). E in cui aumentano continuamente i prezzi, i rischi e, soprattutto, lo spettacolo. Lo show business dell’entertainment, nell’epoca dell’immagine-televisione, finisce per condizionare anche il lavoro dei boia.

Ne esce un film spielbergiano al cento per cento, e non soltanto perché Munich è, prima di tutto (ma per fortuna non soltanto) un film sulla questione ebraica. Munich arriva dopo due riflessioni sulla natura e sulla materia delle cose che chiamiamo reali, e le completa interrogandosi attorno al problema dell’identità, della sua stabilità in termini di valori e figure, approfittando della presenza di Kushner, che alla questione dell’appartenenza e della definizione del sé ha dedicato il suo capolavoro, mescolando dimensione sessuale, religiosa, politica e razziale: prima A.I., con la sua confusione “materica” di reale e virtuale, in cui si affacciava un altro tema della filmografia del regista, quello della memoria, individuale e collettiva; poi Minority Report, che poneva invece il problema – tra gli altri – della presenza delle cose e del loro accadere, e insomma del “vero” in rapporto al “fatto”, in cui intenzione e esecuzione venivano parificati dalla presunzione matematica. Prova a prendermi e Terminal completano il quadro, il primo col suo travestitismo che ricorda tanto quello di Avner, e che in entrambi i casi, dietro la necessità, rivela l’instabilità, il secondo separando – anche se in chiave comica – un cittadino dalla sua Patria, e sollevando il problema dell’appartenenza politica e della reciproca definizione – antropologica prima che politica – di soggetto e luogo.

Munich, insomma, specifica, donandogli un’esattezza e una location storiche, preoccupazioni e temi che attraversano tutto il cinema di Spielberg, non soltanto quello degli anni Novanta. In particolare, li rimaneggia in chiave politica, facendo del pirandellismo sempre più pronunciato del suo cinema una chiave d’accesso privilegiata per comprendere le ragioni delle rivendicazioni identitarie, pacifiche e non, che agitano la cultura contemporanea, quella dei rinnovati tribalismi, dei ruggiti post-coloniali e degli orgogli nazionalistici. In cui l’essere “uno” di qualcuno coincide spesso con l’essere “nessuno” di qualcun altro. E la tragedia è di tutti, centomila e più. Certo, la questione israelo-palestinese non è solo questo. Ma Spielberg se ne libera abbastanza in fretta, e al massimo lo si potrà accusare di uso tendenzioso della storia, da cui – procedendo al contrario rispetto a quanto accade di norma nel film storico – non estrae una “morale” ma che usa per dare forma e corpo a un’idea che riguarda tutti.

Il pirandellismo di Avner appare insomma più una condizione esistenziale originaria che non il prodotto della Storia che, semmai, interviene a far maturare nell’uomo una consapevolezza nuova. Dal soldato “semplice”, ritratto inizialmente mentre siede sul divano di casa sua, a guardare la televisione accanto alla moglie incinta, Avner estrarrà, a poco a poco, la coscienza e l’abilità dell’assassino, trovando al contempo giustificazione alla propria biografia e alla propria psicologia di figlio “a metà”, con un padre eroe assente e una madre altrettanto lontana (lo ha abbandonato ancora piccolo in un kibbutz). La violenza e la vendetta diventano insomma, contemporaneamente, il mezzo attraverso il quale riappropriarsi di un’identità e il luogo di un riconoscimento: fatalmente, è nella morte, nel sangue e nello sterminio del nemico che Avner trova le ragioni del suo destino e il senso della sua “educazione”.

La morte, gli dice il giovane terrorista palestinese incontrato forse non per caso ad Atene, ricade dai padri sui figli, infinitamente. Riconoscersi come un assassino significa allora ritrovare il proprio legame originario col padre e la propria responsabilità di figlio. Significa entrare a far parte di una storia. Così, il romanzo di (ri)formazione di Avner procede dall’uno al nessuno, fino al centomila, che è la condizione ultima di migrante lontano dalla propria terra, disconosciuto dal suo stesso mandante e legame istituzionale con Israele (Geoffrey Rush, bravissimo), con una figlia che crescerà da ebrea-americana. Avner cambia vestiti, parlata, nome; è ufficialmente uno sconosciuto, separato dai suoi affetti; sulla strada incontra un informatore che gli chiede di chiamarlo papà, e che lo vorrebbe come figlio, al posto dei suoi due, che disprezza. Di missione in missione, le ragioni della sua avventura si offuscano, nel confronto con gli avversari (i palestinesi) o nel deragliamento killeristico (l’uccisione della spia olandese). Ogni nome della sua lista, scopre, è anche un uomo: e Spielberg è bravissimo a descrivere con pochi tocchi, sempre un attimo prima della morte, le vittime. Non per umanizzarle, ma per rendere più disumano il compito di Avner. Un tagliateste che, alla fine, perde la testa. Perché tutto, lentamente ma inesorabilmente, in questo teatro di specchi e fantasmi, di voci telefoniche e personaggi travestiti, di informazioni di cui non è possibile e nemmeno più importante stabilire la verità o la falsità, si riflette almeno una volta nel suo rovescio, rivelando insospettabili somiglianze nella diversità.

La morale non è però qualunquistica: azzerare le differenze non significa parificare le ragioni e semplificare la storia; né, tanto meno, assolvere tutti allo stesso modo. Significa, al contrario, riconoscere l’esistenza e il funzionamento di una logica – tra lo psicologico e il comportamentale, originaria e culturale – che sta prima della storia e della politica, e che ci riporta alla fonte non della violenza, ma dell’umanità. Spielberg fa un giro più breve di Scorsese, ma alla fine incappa in quello che in Gangs of New York era forse più evidente e comunque meno problematico, perché rimandato lontano nel tempo, ossia l’origine violenta dell’identità individuale e nazionale, in cui la conquista di un nome e di una terra coincide fatalmente con la prevaricazione di altri nomi e di altre terre. L’affermazione di qualcosa è sempre la negazione di qualcos’altro. E così, questa volta, Spielberg non chiude sull’happy end con cui, anche se in forme sempre un po’ disperate e consapevolmente retoriche, è abituato a concludere i suoi film. Questa volta, arrivato grosso modo al “nostro” presente – sono passati alcuni anni dall’inizio della missione di Avner – chiude su un punto interrogativo perfettamente riassunto dal dialogo scenografico tra il piccolo Avner e l’imponente skyline newyorkese. Nel quale, un po’ defilate, svettano le torri gemelle. Ancora lì.