Sostieni Cineforum | Intervista a Hou Hsiao-hsien

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Tra le innumerevoli interviste pubblicate su Cineforum, abbiamo ripescato nel n.288 del 1989 quella al Maestro del cinema taiwanese Hou Hsiao-hsien, in occasione della vittoria del Leone d'oro da parte del suo Città dolente al Festival di Venezia.

 

 

 

Cineforum n.288, 1989

Intervista a Hou Hsiao-hsien 

(a cura di Bruno Fornara e Leonardo Gandini)

– Per quali ragioni ha scelto di raccontare una storia ambientata in un periodo particolare, che va dal 1945 al 1949?

– Dovete sapere che quella fu un 'epoca molto importante per Taiwan, un'epoca di profonde trasformazioni politiche e sociali. Nel 1945 Taiwan era sotto l'occupazione giapponese già da cinquant'anni, e questa circostanza aveva avuto una radicale influenza sulla vita locale, sulla cultura come sull'istruzione, sulla lingua come sul modo di mangiare e vestire. Poi, sempre nel 1945 i cinesi nazionalisti assunsero il controllo dell'isola, e per un momento sembrò che l'occupazione straniera fosse giunta al termine, che finalmente l'ordinamento politico, e dunque anche quello culturale, potesse rifarsi alla madrepatria, alla Cina, anche se poi questi desideri non si concretizzarono, e la popolazione locale continuò a sentirsi una colonia. A me interessava soprattutto rappresentare questo periodo di grande fermento attraverso la descrizione dei rapporti personali all'interno di un nucleo familiare, perché credo che la famiglia, in quanto base della società, sia la prima a risentire dei mutamenti che riguardano la sfera sociale.

–  Dal comportamento dei personaggi sembra però trasparire anche un desiderio di autonomia, di indipendenza, e non solo una speranza di riprendere i contatti con la madrepatria ...

–  All'epoca, gli intellettuali non hanno mai pensato alla possibilità di una indipendenza dell'isola. Si sono sempre battuti contro l'occupazione giapponese e a favore di quella cinese, venendo al tempo stesso influenzati dalle correnti di pensiero filosofico e politico che arrivavano dalla Cina. Quando l'occupazione giapponese ebbe termine, un gruppo formato da uomini d'affari e da alcuni giapponesi rimasti nell'isola ha promosso un movimento indipendentista, ma si è trattato soltanto di un episodio marginale, di breve durata. Devo comunque precisare che il mio atteggiamento nei confronti delle aspirazioni dei taiwanesi è di assoluta solidarietà, sebbene io abbia cercato, nella realizzazione del film, di essere il più possibile obiettivo.

– Lei è nato nel 1947, e questo significa che ha dovuto compiere un lavoro di ricerca per documentarsi sul periodo preso in esame nel film. Come si è svolto questo lavoro?

– Posso dire di avere fatto riferimento al materiale che normalmente si consulta in questi casi. Insieme ai due sceneggiatori, Wu Nien-jen e Chu Tien-wen, ho letto sia i giornali dell'epoca che i romanzi ambientati in quel periodo, ho intervistato persone che avevano vissuto quegli eventi, ho cercato di crearmi una documentazione fotografica, mi sono procurato canzoni dell'epoca, che ho poi utilizzato per descrivere la tristezza della gente di Taiwan. Questo lavoro è durato alcuni mesi.

– Ci può dire qualcosa sulle diverse lingue che vengono parlate nel corso del film? È un elemento importante, anche se uno spettatore occidentale ha qualche difficoltà a coglierlo...

– In effetti questo miscuglio di lingue può apparire strano. Dovete però sapere che in Cina i dialetti variano non soltanto di regione in regione, ma anche all'interno di un singolo territorio. La lingua nazionale è il mandarino, ma per esempio nella regione antistante all'isola di Taiwan si parlano diversi dialetti, che in alcuni casi sono tra loro assai differenti. Per riuscire a riprodurre le difficoltà e la confusione determinate da questa società mistilingue, sono ricorso alla presa diretta.

– Dal punto di vista narrativo, lei pone subito lo spettatore in mezzo all'azione, senza introdurre progressivamente i personaggi. Poi, man mano che la vicenda si sviluppa, il quadro dei personaggi si va gradualmente diradando, fino a quando al centro della storia rimane una coppia. Quali sono le ragioni di questa scelta?

– In effetti, all'inizio non viene spiegata la funzione di ciascun personaggio all'interno della vicenda. Ma se lo avessi fatto, se avessi chiarito sin dal principio il ruolo di ognuno nell'ambito della società e della famiglia, questo compito avrebbe richiesto una quantità enorme di tempo. Io volevo invece restituire il sapore dell'epoca attraverso un ritratto corale della gente e delle sue occupazioni, senza addentrarmi subito in caratterizzazioni dettagliate. Tenete comunque presente che l'idea iniziale era quella di ritrarre due generazioni, facendo un film che sarebbe dovuto durare sei ore. In seguito, problemi riguardanti gli ambienti e il cast ci hanno costretto a ridimensionare il progetto.

 – Tra le altre cose, il suo film parla anche della dissoluzione del nucleo familiare, del passaggio dal clan ad una famiglia di dimensioni più ridotte, un trapasso che è accompagnato da un'analoga progressione verso il silenzio...

 – Entrambi questi passaggi non sono stati concepiti preliminarmente, a tavolino. Certo essi fanno parte della struttura narrativa che ho voluto dare al mio film, ma non sono nati prima, a livello concettuale. Ho voluto comunque sottolineare, all'interno della famiglia, la diversità tra il silenzio dell'intellettuale e il rumore degli altri.

– Le sue scelte espressive, ad esempio l'esposizione per blocchi narrativi e la distanza della m.d.p. dagli eventi rappresentati, nascono già a livello di sceneggiatura?

– La sceneggiatura mi serve solo a dare una struttura generale al film. Poi, al momento delle riprese, tutto dipende dalla risoluzione dei problemi che sorgono di volta in volta. Per me, è essenziale la concretezza: la sceneggiatura è un piano generale che viene costantemente mutato dalle situazioni concrete che si devono affrontare durante la lavorazione. Ad esempio, la scelta delle locations, che a Taiwan non è mai troppo facile, o il rapporto con gli attori.

– Il fatto che lei oltre ad essere un regista sia anche un attore, la aiuta nel suo rapporto con gli interpreti?

– Credo che il compito principale dell'attore sia quello di comprendere lo spirito del film e del regista. Se riesce a fare questo, l'attore può dare un contributo importante alla realizzazione del film, al di là della sua specifica abilità tecnica. Per quanto riguarda il mio rapporto con gli interpreti, durante la lavorazione cerco sempre di capire che tipo di persona è l'attore con cui sto lavorando, per sapere come affrontarlo. Ci sono attori che hanno bisogno di essere ripresi a loro insaputa, come se si stesse semplicemente provando, altri che attendono di essere spronati, e così via. Occorre considerare il fatto che a Taiwan gli attori professionisti non sono molti, e che dunque con tutti gli altri è necessario un lavoro paziente, per trarre fuori da loro il meglio. Preferisco comunque l'attività di regista a quella di attore.

– Nella messinscena, lei compie tre scelte fondamentali: l'immobilità della m.d.p., la profondità di campo e l'accento posto sul fuori campo, su quello che avviene fuori dallo spazio dell'inquadratura. Le considera tre componenti essenziali del suo cinema?

– All'inizio della mia carriera di regista, ho cercato subito di fare fronte alle difficoltà concrete che mi si ponevano. Ad esempio, i problemi connessi al fatto che a Taiwan è molto difficile trovare luoghi adatti alle riprese, oltre alla necessità, come vi ho detto, di lavorare spesso con attori non professionisti. Le mie scelte espressive nascono appunto da queste difficoltà: gli attori non professionisti, per esempio, si trovano più a loro agio se la m.d.p. che li riprende è immobile, perché in questo modo hanno più tempo per far emergere la loro personalità creativa. Il costante adattamento a questo e ad altri problemi mi ha progressivamente portato ad apprezzare determinate scelte formali, che ora si può dire facciano parte del mio stile. Quanto alle inquadrature, mi sono sforzato di essere il più possibile obiettivo nella ricostruzione della vita dell'epoca, e a questa decisione si deve l'uso ricorrente della profondità di campo.