C'è un momento, in The Walk, in cui il Philippe Petit interpretato da Joseph Gordon-Levitt, durante l'allenamento nel circo di Papa Rudy, fa l'errore di ritenere che il suo percorso sul filo sia compiuto tre passi prima dell'approdo effettivo sulla pedana. Il passo diventa incerto, la corda trema improvvisamente sotto le piante dei piedi, l'equilibrio si smarrisce sulla tensione del filo ormai instabile, il corpo cade pur aggrappandosi istintivamente per non schiantarsi al suolo.
Da un lato si tratta di un set up, una manovra preparatoria che tornerà utile per suscitare la tensione accessoria verso la fine dell'impresa, quando, dopo aver danzato sul filo, essersi inchinato, sdraiato, aver salutato l'improvvisato pubblico, dribblato la polizia sul tetto delle Twin Towers, Petit giunge a soli tre passi dal ritorno sulla torre rischiando di vanificare tutto proprio in prossimità della conclusione. Dall'altro, la circostanza offre una piccola opportunità di riflettere sull'utilità attuale del 3D, arrivato ormai alla sua quarta epifania.
Mentre Petit si aggrappa tempestivamente alla corda, attraverso il consueto espediente metonimico che accresce la tensione pur preservando la sorte del protagonista, la sua asta cade rovinosamente al suolo.
La macchina da presa, collocata in basso, in attesa, genera l'effetto (che una volta si definiva) sociale di uno spostamento collettivo degli spettatori a difesa di una presunta integrità virtualmente minacciata. Si ride per il pericolo scampato e per averlo ritenuto possibile. Ma quella dell'asta che cade è veramente l'unica occasione in cui, per tutto il film, la tridimensionalità si avverta come una presenza fattiva e sostanziale.
Le riprese dall'alto delle torri durante l'impresa di Petit sono vertiginose, spettacolari e stranianti, ma lo sono anche nella versione bidimensionale grazie all'illusoria profondità di campo fornita dal digital matte painting.
Il 3D non aggiunge niente di più suggestivo neanche rispetto alle foto (quelle reali) dei collaboratori di Petit che registrarono l'impatto del vuoto dalla sommità delle torri.
Benché non sia nuovo al procedimento (Polar Express, La leggenda di Beowulf, A Christmas Carol), Zemeckis produce un percorso percettivo che risponde ai dettami della terza dimensione esclusivamente attraverso lo sguardo, senza coinvolgere il corpo e la mente. La sua assunzione è soltanto spettacolare, non immersiva. Ed è in questa dicotomia che si smarriscono il senso e l'utilità del 3D, non solo di The Walk.
La modalità spettacolare, malgrado l'evoluzione della tecnologia, non ha mai veramente superato la concezione degli anni Cinquanta, quando lo stupore e l'incanto scaturivano dall'oggetto lanciato verso lo schermo per obbligare il pubblico a una reazione forzata. Indipendentemente dal valore della pellicola, The Walk rimane alla superficie dell'edificazione di un universo-altro: gerarchizza corpi e forme, ma non gestisce i volumi all'interno della superficie del piano e non estende la realtà in uno spazio che sia completamente abitabile per lo spettatore, così come invece hanno fatto (restando veramente gli unici dell'ultima ondata) Avatar e Gravity.
L'estensione che corre sul filo delle Twin Towers può diventare a buon diritto l'allegoria di un'innocenza perduta ormai per sempre, ma non si trasforma nemmeno per un istante nel luogo di una complessità percettiva capace di insediarsi in una realtà parallela ottenuta fondendo tutti i sensi. Probabilmente (e paradossalmente), è troppo elevata la distanza tra filo nel vuoto e suolo per generare un'autentica immersione che sia percepibile diversamente rispetto a una normale prospettiva di ripresa in profondità.
Il 3D attuale non può passare solo attraverso la vista, nella quale si accumula una meraviglia già conosciuta da tempo, ma deve interessare il corpo e la sua progressiva compenetrazione nel tessuto stesso del film, dell'avventura, dell'impresa che può fallire per un dubbio che non può essere solo del protagonista, ma anche dello spettatore. Come se fosse un elemento assorbito completamente dal racconto, non l'osservatore privilegiato di un'abile costruzione della tensione narrativa.