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(dis)Sequenze#9 - L'occhio nel cielo

Il diritto di uccidere è un cortocircuito stilistico e percettivo. Ancor prima della riflessione sull’etica dell’azione militare. Ancor prima del paradosso di un war movie ambientato “al tavolo con caffè e biscotti”. Anzi, proprio in funzione di questo.

Il titolo italiano sposta l’attenzione su un’occorrenza morale, come se fosse un noir esistenziale di Nicholas Ray. Quello originale ne fornisce invece il metro metanarrativo: Eye in the Sky. Quello che gli americani, con la loro innata icasticità, chiamano in gergo God’s Point of View. Un Dio biblico pronto a scagliare fulmini e saette contro i nemici, previo un lacerante dissidio intimo, in questo caso.

Da un lato, Il diritto di uccidere mostra l’estensione iperbolica dell’establishing shot, il piano d’ambientazione che nella grammatica del cinema fornisce le caratteristiche essenziali del luogo di svolgimento dell’azione, le presenze e i rapporti spaziali tra i personaggi, a cui poi segue – solitamente – la frammentazione nelle varie inquadrature che compongono la scena.

Il film di Gavin Hood è il suo piano d’ambientazione iniziale. Su cui, peraltro, campeggia l’ammiccante titolo originale, quasi a sottolinearne l’assunzione. Illustrazione, motore narrativo, fulcro della suspense e specchio delle riflessioni etiche pronte a erompere con le loro conseguenze (foto 1).



Nient’altro che un’inquadratura attivata da un drone e concentrata su una villa in un quartiere di Nairobi al cui interno alcuni terroristi stanno pianificando un attentato kamikaze con giubbotti esplosivi. È dalla loro presenza all’interno dell’abitazione, dalla posizione della villa nell’abitato e dall’eccessiva vicinanza all’obiettivo militare della piccola venditrice di pane (dalle reminiscenze spielberghiane: vestita di rosso per facilitarne la localizzazione con un semplice colpo d’occhio) che nasce qualunque aspetto della storia narrata. Tutto ruota intorno a quella stessa inquadratura aerea, riproposta costantemente per illustrare anche il minimo mutamento di equilibrio (foto 2) all’interno della vastità di una scena caratterizzata dalla modalità dell’assenza, perché tenuta sotto controllo visivo da centri ubicati tra Las Vegas e Londra (foto 3).





Ovviamente, non è la prima volta che la pratica del controllo si esprime con un piano aereo: nel cinema americano che tratta delle conseguenze dell’11 settembre rappresenta una dinamica piuttosto diffusa. È la sistematicità stilistica e progettuale a essere differente: Il diritto di uccidere non si limita a informare collocando nello spazio, perché la ricorrenza del suo piano d’ambientazione costituisce la fonte principale del racconto e il livello di confronto tra tutti i personaggi.

E non solo. Una volta, fino a una ventina di anni fa, queste inquadrature erano ancorate concettualmente all’intervento più o meno discreto di un’istanza narrante (si pensi all’inizio de La conversazione di Coppola, per dire). Ora (ma già da qualche tempo) c’è chi guarda. L’occhio nel cielo non è più solo quello di Dio, ma anche – e soprattutto – quello dell’uomo nella sua attitudine volta al controllo e all’eventuale punizione.

L’oggettiva irreale di un tempo diventa soggettiva dislocata: raggiunge la presunta impossibilità della ripresa, ma mitiga il protagonismo della macchina da presa rendendo centrale l’assunzione dello sguardo dei personaggi. Conserva la sua marcata peculiarità meta-discorsiva pur trasferendola in un assolutismo della visione dai tratti inquietanti: non è più la megalomania dell’Autore a disporre di una prospettiva panottica, quanto la soggettività di un controllo globale che riflette le possibilità del reale