Certo, è ovvio vederci un'estensione ultraventennale di Le iene. Così come è impossibile non pensare a un'ideale continuazione pseudoideologica di Django Unchained o alla destrutturazione dei tempi narrativi di Jackie Brown, quando le luci si spengono nuovamente dopo l'intervallo. È ovvio perché c'è tutto. Tutto ciò che Tarantino ha inventato, desunto, rubato e campionato è dentro The Hateful Eight. Un compendio di quello che, negli anni, ha nutrito la sua fantasia al punto da far perdere il confine tra invenzione e ispirazione, condensandolo in un tutt'uno inscindibile di cui fanno parte anche gli attuali Il grande silenzio, La notte senza legge, The Thing, Carrie ...
Tarantino, si sa, si potrebbe affrontare – e spesso lo si fa – anche solo attraverso gli eccetera, ma cui prodest, ammesso che un prodest esista? Il gioco questa volta è più asfittico che mai, visto che è ufficialmente dichiarato fin dalla promozione del titolo: "The 8th film of Quentin Tarantino". E se i detestabili otto sono facilmente additabili sulle locandine, anche perché evidenziati da una striatura programmatica di sangue, come far quadrare la somma con i due che avanzano (il vetturino O.B. e Jody Domergue)? Forse perché non detestabili? Magari il primo, per vocazione funzionale all’interno del racconto, ma il secondo? Solo per il suo fascino perverso? O con ogni probabilità gli H8 sono proprio i film di Tarantino che in questo modo realizza il suo personale e in qualche modo autocelebrativo Otto e mezzo?
Vedendola così, il piano ermeneutico solitamente utilizzato per leggere il suo cinema dovrebbe recedere di un ulteriore livello e contemplare, oltre alla consueta sedimentazione cinefila d'autore e alla (ri)sistematizzazione dei generi classici, anche il capiente bagaglio proveniente dalle sette precedenti produzioni (nel quale i due volumi contano uno e gli episodi non sono neanche contemplati). Una stanca parodia di se stesso, come sostengono i "Cahiers", o una rassegna di volti noti, situazioni e trovate narrative, colpi a sorpresa e mutazioni di livello, (de)costruzioni temporali e interventi mirati (come la voce narrante dello stesso Tarantino che riassume il racconto a uso dello spettatore attardatosi ai pop- corn) che punta a esibire fellinianamente il proprio riconoscibile canone?
Il tarantinismo stesso come motore narrativo e anima di ogni aspetto del racconto, dal plot point al twist. Prendiamone uno a caso, tra tutte le eventualità possibili e parimenti valide. Uno dei più immediati e sorprendenti, quasi decisivo perché tra gli ultimi a verificarsi. Siamo a due terzi esatti del film, il maggiore Marquis Warren ha appena terminato di ricostruire in qualità di Poirot in disguise le varie possibilità che hanno portato all'avvelenamento del caffè e alla morte di John Ruth e di O.B.
La macchina da presa si colloca alle sue spalle e scende lungo il corpo, oltrepassa i listelli di legno del pavimento e penetra nello spazio sottostante, nel quale un primo piano chiaroscurato di Channing Tatum/Jody Domergue dichiara ciò che sta per fare, attentare alle palle del maggiore con una pistola. Sparo immediato e palle adieu. Attraversamento del confine scenografico, rivelazione di un altrove occulto all'interno dell'haberdashery di Minnie, Diabŏlus ex machina che condiziona l'ultimo terzo del racconto, riferimento all'hell sotto il palcoscenico del teatro elisabettiano (ribadito dalla botola mostrata subito dopo), ma soprattutto rimando interno in un gioco fondato sull'autoalimentazione. Così come lo spazio sottostante il set rappresentava il prorompere del dramma bellico nel western sui generis della prima (lunga) sequenza di Inglourious Basterds, così, in H8, la dimensione splatter s'impossessa del western venato di mystery che si sta svolgendo al piano superiore.
Per Tarantino, il mutamento repentino di genere è una dialettica violenta in cui i livelli fisici e narrativi si attraversano visibilmente, creano una metafora sensibile e si nutrono degli elementi esistenti all'interno di un cinema, il suo, che ormai ha il sapore della prospera antologia.