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(dis)Sequenze #11 - The Birth of a Nation

Quando si racconta una storia sulla schiavitù, perlomeno da Radici in avanti, si giunge sempre a una microconfigurazione del racconto definita e pressoché inevitabile. Inevitabile perché impossibile storicamente da ignorare e anche perché, molto spesso, rappresenta un sicuro turning point nello sviluppo strutturale della narrazione. Il protagonista è punito per una colpa ritenuta gravissima per la società del Sud (ma incongrua nella visione abolizionista che si suppone insita nella visione del racconto e nella percezione del pubblico) e colpito con inumana violenza per trasferire il concetto di animalità di cui è accusato lo schiavo al bianco che lo punisce, sempre sudato e trasfigurato dalla furia. Il fulcro è nei secondi che seguono. Solitamente momenti di orgoglioso riscatto e/o presa di coscienza collettiva. Oppure. Oppure la matassa s'ingarbuglia e la consueta linearità dei meccanismi del Fall & Rise appaiono più profondi e ideologicamente più complessi da districare.

L'episodio di The Birth of a Nation vira sulla consueta linearità, abbellita da un'estetizzazione quasi lirica. Nat, il predicatore nero schiavo dei decaduti Turner, è malmenato, legato e frustato fino allo stremo delle forze per aver battezzato sul suolo dei suoi padroni un peccatore bianco. Hỳbris in the Old South, benché si faccia in fretta a diventare tracotanti in quel contesto. Appoggiato con il mento all'asse di legno a cui è stato legato, stremato, le labbra tumide di sangue, un rivolo che cola sul legno, Nat è moribondo.



E anche le prospettive di un'eventuale sopravvivenza non sono così rosee, poiché chi l'ha frustato gliel'ha giurata per il futuro, sussurrandoglielo all'orecchio, con tenera premura. Nell'oscurità sfocata che lo contorna, nell'invisibilità di volti che ne condividono il dolore nascosti dietro le finestre, alcune fiammelle cominciano a fare capolino, fino a riempire tutta la breve strada alle sue spalle, mostrata repentinamente a fuoco con un innalzamento della macchina da presa.







Un innalzamento anticipatorio. Le fiammelle di solidarietà muta e timorosa alimentano le residue forze di Nat che, con enorme sforzo, facendo leva sul suo corpo esausto, piegato e umiliato, alla fine riesce a ergersi sull'asse cui è legato. Punto di svolta banalmente metaforico: lo schiavo risorge pronto alla rivolta.



Steve McQueen, in una configurazione simile di 12 anni schiavo, era invece riuscito a riassumere in tre minuti la tragica identità storica degli afroamericani, rendendo quasi superfluo il resto del film (mi si perdoni l'autocitazione, ma è solo per collegarsi al presente discorso). Giocando con i rapporti tra la figura del protagonista crudelmente punito e lo sfondo, le messe a fuoco e la densa percezione del tempo, McQueen aveva dipinto un affresco stratificato in cui convivevano la violenza patita, l'impotenza storica di un popolo, lo scacco declinato in prudente indifferenza, la solidarietà paurosa e la drammatica relazione tra quotidianità dell'esistenza e
remissiva abitudine al dolore.

McQueen ha cristallizzato un preciso universo evidenziandolo rispetto al flusso sospeso del tempo; Nate Parker, in The Birth of a Nation, ha solo giustificato narrativamente la vendetta come atto di reazione per le violenze subite. Il confronto non è solo tra universale e particolare, ma anche tra chi ha realizzato tre minuti di cinema d'arte nutrito da una spiccata sensibilità antropologica e chi ha invece soltanto superato un decisivo punto di svolta del suo racconto. Per quanto lirico e intenso possa apparire.