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(dis)Sequenze#24 - La terra dell'abbastanza

La terra dell’abbastanza è la dimostrazione che si può realizzare un film sul disagio della periferia pur limitando drasticamente l’utilizzo del contesto suburbano come ambiente riconoscibile. Se Garrone in Dogman, film che i due fratelli D’Innocenzo, Damiano e Fabio, hanno contribuito a sceneggiare, colloca il suo personale “uomo che ride” Marcello Fonte nell’ampiezza del quartiere da cui sarà successivamente scacciato, come neanche i cani di cui si prende cura, i due protagonisti de La terra dell’abbastanza, Mirko e Manolo, appaiono sin dalla scena iniziale separati, quasi estrapolati, da quel contesto di cui sono pur diretta emanazione.

 

Il film, infatti, non ambienta, fionda. Immerge ma contemporaneamente distanzia.

 

Prima inquadratura: un'auto in un ampio spiazzo. Ovviamente anonimo e contornato da palazzi. L'auto, osservata da lontano e da posizione sopraelevata, pare inglobata, intrappolata nel centro esatto del quadro. I due ragazzi protagonisti sono in uno stretto abitacolo di quella stessa auto. Ridono e vociano. Mangiano un panino con della cicoria e discutono in romanesco con la bocca piena. Chi non è romano capisce poco. Ma probabilmente anche chi è romano ha delle difficoltà a comprendere espressioni che si fanno largo tra una risata sguaiata e un frammento di cibo schizzato dinanzi a sé. I piani si alternano ma sono tutti dentro l'abitacolo, concentrati su Mirko e Manolo come se l'esterno fosse estraneo.

 

 

 

Non è necessario soppesare il quartiere da cui provengono Mirko e Manolo per comprendere chi siano e classificare per sommi capi la categoria possibile delle loro successive azioni. È un confine esilissimo in cui il lavoro svolto sulla plasticità dell'immagine e sulla tendenza a imporre, grazie all'insistenza sui volti, le figure sull'insieme più vasto di cui farebbero parte si confonde con il pregiudizio sollecitato dal look e da una koinè romanesca plebea, che sempre si associa, almeno da Pasolini in avanti, alle storie di emarginazione (o al cinepanettone, ma non è questo ovviamente il caso).

 

L'abitacolo chiuso all'esterno in cui si rimpallano i primi piani dei due protagonisti è già un emblema di alterità. La cicoria sputazzata che non permette la piena comprensione, riducendola ai due soggetti, ne è un altro. Le risate grasse su un canale comunicativo cui si ha un accesso molto relativo ne sono ancora un altro. Mirko e Manolo, in quell'abitacolo che subito dopo cambierà le loro vite radicalmente, sono già isolati, disgiunti da un centro a cui non appartengono, quasi intrappolati nel loro destino chiuso su se stesso che quei primi piani ripetuti, soffocanti, non fanno altro che richiamare, uno dopo l'altro.

 

 

 

In La terra dell'abbastanza la periferia, come si diceva in Oltre il giardino, è uno stato mentale e l'iconografia rigorosamente centripeta, la grana pastosa e organica dell'immagine, le focali lunghe che staccano l'individuo da uno sfondo sconnesso non fanno altro che rifletterlo simbolicamente, negando l'iconografia consueta e sostituendola con un'emarginazione aprioristica dell'anima. L'auto è il mezzo – il tramite, più propriamente – con cui si affronta il mondo: vi si entra speculando sulla tragica casualità, ci s'inalbera se le prostitute rifornite di preservativi e bottiglie d'acqua guardano verso il volto del guidatore, rischiando di far irrompere l'esterno nell'isolamento della propria realtà. E quando, da quella stessa auto, si scende, si patisce tutto il peso di quella periferia che ingloba e annienta ogni individualità.

 

Quello che rimane è quel poco che avanza, come dicono in un dialogo fulminante i genitori dei due ragazzi incontratisi per caso in una tabaccheria, luogo che brucia lentamente le esistenze con modalità differenti. Sembra che non si dicano niente e invece si dicono tutto.

 

Tutto quello che c'è.