Ogni tanto occorre ripetersi che il re è nudo.
L'occasione è offerta dall'uscita in 450 sale di La vita è bella di Roberto Benigni, terza provocazione (al genere, alla credulità del pubblico, soprattutto al box office) del comico toscano (coadiuvato da Vincenzo Cerami, dalla solita intervista esclusiva di Enzo Biagi e soprattutto da un'incursione farsesca al Tg1) dopo Johnny Stecchino e Il mostro, nella serie mafia, serial killer, lager, che a loro modo tirano sempre.
Ma se i primi due elementi di richiamo vengono a loro tempo sin troppo dichiarati, il terzo resta off limits. Almeno per manifesti, locandine e gadget vari della Cecchi Gori, che teme di urtare a priori la sensibilità degli spettatori e preferisce far credere a una favola sorridente sotto un bel cielo stellato. Anche nei trailer la chiave è accattivante: chissà che cosa ne avrebbe pensato Serge Daney, il noto critico del Kapò di Pontecorvo. E poi, esprimendo concetti tipo «quanto è bella la vita», testuale, c'è il rischio che strepiti il “rivelatore di stronzate” reso celebre dal presago Delicatessen (1991, di Jean-Pierre Jeunet e Marc Caro).
La storia non finisce qui. Nel 1998 La vita è bella conquista 5 Nastri d'argento e, quel che più conta, 7 nomination agli Oscar e 3 statuette (film straniero, attore per Benigni, musica per Nicola Piovani). Il 22 ottobre 2001 risulta il film più visto in TV: oltre 16 milioni di spettatori sintonizzati su Rai1. Ma c'è anche il trucco. I maligni raccontano che al giovane Tornatore, per Nuovo cinema Paradiso, sia stato detto: «A chi vuole interessi un film su una sala cinematografica?» e prontamente Scola mise in cantiere Splendor. Gli stessi maligni affermano che qualcuno, letto il copione, rifiutò al giovane Radu Mihaileanu il progetto di Train de vie, sostenendo che era impossibile fare un film tragicomico sulla deportazione, e subito dopo Benigni si mise al lavoro. Che poi l'umorismo yiddish abbia battuto quello toscano è un altro discorso.