L'altra faccia delle lune

L'altra faccia delle lune

Quel pasticciaccio di via Tuscolana

«Caro lei, quando c'era Lui, non solo i treni arrivavano in orario, ma anche le grandi opere venivano realizzate a tempi di record.»

Ahimè, può ben dirlo qualche nostalgico. Iniziati il 26 gennaio 1936, in soli 15 mesi terminano i lavori per la costruzione di Cinecittà, giusto perché il complesso sulla via Tuscolana possa essere, nella data di cui sopra, inaugurato ufficialmente da Benito Mussolini. Su un'impalcatura una gigantografia del Duce alla macchina da presa sovrasta la scritta “La cinematografia è l'arma più forte”, plagio di un detto leniniano. Così nasce un'istituzione e una struttura di cui, anche a tanti decenni di distanza, forte dei 3000 film che vi sono stati realizzati, dovremmo andare orgogliosi, e che taluni identificano con lo stesso cinema italiano.

Vista oggi in una foto aerea si ha l'impressione che si tratti invece, non solo di una cittadella assediata dalle speculazioni dei palazzinari romani, ma anche di un modesto insieme di capannoni con un insufficiente backlot. Non nobili le origini: la zona, nota come località Cecafumo, era adibita allo smaltimento per combustione della monnezza. Né innocente la nascita: dovuta essenzialmente alla necessità di sopperire alla distruzione, causa un misterioso incendio, sicuramente doloso, degli studi della Cines in via Veio.

Vi vedono la luce i film del regime, a cominciare da quell'incredibile pasticciaccio che è Scipione l'Africano di Gallone: un marchio, quello dei kolossal storici, che le resterà impresso. Con il '43, a opera dei nazisti, diventa campo di concentramento; con il '44 ricovero per gli sfollati. Bisogna attendere nel '50 la “Hollywood sul Tevere” perché Cinecittà torni ai “fasti” di un tempo, con i nuovi kolossal che si chiamano Quo vadis? di LeRoy e Ben Hur di Wyler, ma gli studios sono competitivi solo perché un'apposita legge non consente ai produttori stranieri di esportare i guadagni realizzati in Italia, obbligandoli così a reinvestire in loco. (In epoca più recente dovremo accontentarci di Gangs of New York di Scorsese e di La passione di Cristo di Gibson per trovare qualche evento.)

Ma Cinecittà è una parte per il tutto: celebrando essa, scientemente si dimentica l'esistenza di tanti studios e centri produttivi, legati a singoli produttori, e soprattutto si scorda che ovviamente il più memorabile cinema italiano, quello del neorealismo, e poi quello sperimentale o indipendente o politico, non è passato di lì. Ivi meritano ricordo e riconoscenza solo i tecnici e le maestranze, anche se l'ambiente di lavoro ha aspetti di consorteria mafiosa.

Ad alimentare il mito ci pensa però Fellini, uno per il quale i cieli sono dipinti e che spesso si alimenta di cartapesta, tanto che praticamente vi prende residenza. Il suo famoso Teatro 5, che è già meta turistica, forse diventerà patrimonio dell'umanità. A simboleggiarne l'essenza, già è stato conservato, al centro di un'aiuola fiorita, il gigantesco mascherone di Casanova.

Ma l'autore del profetico Ginger e Fred avrebbe dovuto assistere alla sempre più invadente presenza televisiva con serie e programmi “ospitati” negli stessi studi di Cinecittà. Oltretutto dal 2000 esiste nel complesso la “casa” del Grande Fratello, il più falso reality che si possa concepire, almeno fino a quando – il 13-14 dicembre 2013 – un altro misterioso incendio non la distrugge totalmente. Peccato che nessun redivivo Selznick abbia pensato di filmarlo come sfondo di una sequenza del remake di Via col vento. Ci stava, ed era anche una duplice bella metafora.