L'altra faccia delle lune

L'altra faccia delle lune

Divagazioni sul cinema

Eccezionalmente, per cominciare bene l'anno, si ripropone, da Duellanti del maggio 1998, poi nel volume True stories (Falsopiano, 2008), uno scritto (Il peso specifico della valigia) che qualcuno ritiene saggiamente divertente.

Altro che succo di pomodoro. Ormai, al cinema, il sangue viene bene, sia in versione gore sia in versione splatter. Viene tanto bene che, quando un servizio del telegiornale ti mostra il solito delitto di camorra o il solito tamponamento d'autostrada, la prima reazione è quella di chiedere una maggior cura del dettaglio: poco artistiche le macchie, poco dinamiche le scie, poco realistici gli spruzzi.

Viene bene anche il sudore: volti imperlati di goccioline, capelli madidi di umidità (è un rafforzativo, lo so), magliette intrise nei punti strategici (che sono la zona sterno-addominale per gli uomini e l'areola dei capezzoli per le donne). Per evitar loro bronchiti o pleuriti, i bambini invece non sudano mai, come un tempo accadeva soltanto agli avventurieri dei sette mari, ai forzati della Caienna, ai minatori di carbone.

Efficace il pianto. Altro che la goccia di glicerina che i fans di Greta Garbo attendevano per decine di secondi: non il tempo della commozione scenica, ma, più semplicemente, il tempo richiesto dal calore dei riflettori per sciogliere – scientificamente parlando – il propantriolo. Che questo «alcool trivalente, ottenuto per idrolisi o saponificazione di grassi animali o vegetali», fosse alla base delle più grandi emozioni romantiche dello schermo era cosa tanto realisticamente risaputa quanto emotivamente rimossa, tale comunque da risultare moralmente indegna. Dopo l'Actors' Studio, gli attori piangono davvero, nel senso che il loro pianto è costruito per complesse vie psicologiche prima di dare il ciak: fa niente se poi si verifica su volti di latice e non di cerone. Del resto, al cinema, più che piangere, ormai ci si incazza.

Restando in ambito di reazioni fisiologiche, viene bene anche la pisciata (maschile, ovviamente). Scontata quella negli orinatoi, ripresa quasi sempre lateralmente e sfruttando l'esistenza di paratie, divisori o altri ostacoli, è invece creativa, ancorché liberatoria, quella all'aperto, che viene quasi sempre ripresa di spalle o di tre quarti, ma comunque in modo di evidenziare parabola, ritmo e intensità del getto. Forse, qualche volta, si fa ancora ricorso a fantozziani marchingegni idraulici, ma nella maggior parte dei casi le pisciate sono autentiche, provocate da un'overdose di birra o da un diuretico somministrato con il giusto preavviso.

Se per molti film si può dire veramente «che pisciata!», di pochi altri si può affermare apertamente «che cagata!». La seconda funzione escretoria è ancora abbastanza tabù per lo schermo (viene in mente soltanto il Salò di Pasolini con la sua brava scena di coprofagia al cioccolato), giacché si preferisce utilizzare water e relativo sciacquone per altre parti del corpo: affondarvi per esempio, come accenno di tortura o segno di estremo spregio, la testa del perfido e del bieco (meglio ancora se checca, come nel caso di L.A. Confidential). (Salvo citare, ma la funzione simulata è solo metaforica, il salotto borghese arredato a water in Il fantasma della libertà di don Luis.)

Risalendo il tubo intestinale, giungiamo facilmente alla cavità orale, sede primaria del gusto per il cibo. Il cinema gastronomico (un tempo etichetta con cui bollare artigiani inetti, registi scialacquoni o autori in crisi di identità) è ormai – almeno dai tempi di La grande abbuffata e di Il pranzo di Babette, su su fino a Pranzo reale o a Banchetto di nozze – un vero e proprio filone, propagatore di ricette e di menù. E al cinema si mangia davvero. Altro che i vecchi polli di cartapesta, la frutta di ceramica o lo spaghettate di cordame, mutuati dal teatro! Si vedono i colori e si captano gli odori, solo i vapori sono un po' sospetti. Se un attore si infila qualcosa in bocca, puoi giurare che lo mangia davvero (sperando che sia buono al gusto e soprattutto che sia «buona la prima»).

Va ancora meglio con i «vizi». Fumare – intendo senza simulazioni – s'è sempre fumato, tanto più si fuma oggi che il trend, nella vita, è in discesa e le multinazionali del tabacco hanno quindi esigenze ancora più pressanti (spiace soltanto apprendere che in un film come Smoke Harvey Keitel, ex tabagista, si conceda soltanto sigarette inglesi alla lattuga). Non è provato che sul set si beva veramente – intendo non similwhisky alla camomilla e non similvino al lampone – , ma non è escluso che le abitudini di vita di molti attori non si estendano, per contratto, alla finzione. Canne e spini hanno la loro parte (ultimissimi quelli, presumibilmente veri, di Teatro di guerra e quelli, dichiaratamente falsi, di Aprile), e gli attori spinellati, non fosse che metaforicamente, non mancano.

Quanto al sesso, quello live (masturbazione, fellatio, cunnilingus, ecc.) fa sempre notizia, si tratti di promozione maliziosa o di effettiva intimità raggiunta, e sono comunque ben lontani i tempi delle dissolvenze allusive sulle fiamme del caminetto o dei dettami del codice Hays (se una moglie in camicia da notte è distesa sul talamo, il marito in pigiama stia seduto sul bordo del letto con i piedi ben posati per terra).

Insomma, sotto l'occhio della macchina da presa, sotto le luci dei riflettori, la finzione risulta sempre più uguale alla realtà, computer grafica e digitalizzazioni permettendo. Gli aerei sono aerei, i treni sono treni, le auto sono auto e non si ricorre più al trasparente o spesso nemmeno alla ricostruzioni in studio per figurarvi piloti, macchinisti, guidatori e passeggeri in azione. Nulla oggi costituisce più un simulacro se non – restando in campo di trasporti – la valigia.

Chiunque si sia vagamente mosso oltre la soglia di casa sa che nemmeno una valigetta lunga 70 cm (quelle che non pagano il biglietto in metrò e costituiscono bagaglio a mano in aereo) è priva di un suo peso specifico, per quanto pochi oggetti, indumenti o carte contenga; figurarsi una valigia di più ampie dimensioni o addirittura una coppia di valige. La valigia grava verso il basso (anche questo è un rafforzativo, lo so) e ti costringe a pattinare più che a camminare; la valigia non si bilancia e ti porta invece a sbilanciarti; la valigia ti fa sudare, affannare, perfino incespicare se sei di corsa: poggiata a terra, non si acquieta e tende a ribaltarsi se il suo contenuto non è ben distribuito.

È strumento di tortura, opera del demonio, invenzione di un sadico. Sempre e comunque, eppure – fateci caso – mai al cinema. Sullo schermo, interpreti di qualsiasi età si spostano agevolmente con le loro valigione, che danzano ondeggianti nell'aria, imprimono esse stesse movimento, si posano leggere come libellule. Sullo schermo, chiunque – turista o agente segreto, governante o innamorato, esule o randagia – parta, si sposti, si trasferisca, sopraggiunga o arrivi alla meta è caratterizzato – purché accompagnato dalla fedele valigia - da volto radioso e sereno, corpo flessuoso e scattante, mani morbide e delicate. Poi, sempre sullo schermo, dalla valigia estrae un prosciutto intero, l'opera omnia di Thomas Mann, sei paia di scarponi, quattro lingotti d'oro o dieci bottiglie di whisky...

D'ora in poi, per favore, impariamo a distinguere. Osserviamo le valige e invitiamo a evitare tutti quei film che al riguardo non risultino politicamente corretti. Di fronte a un boicottaggio di così ampie dimensioni, chi fa cinema dovrà cambiare sceneggiatura. O finalmente cambiare valigia: a rotelle, a sfere, a tirante, a tracolla o a zaino, come accade nella vita.