L'altra faccia delle lune

L'altra faccia delle lune

Tutto bene a Metropolis?

Non è ancora diciottenne quando Brigitte Helm (nata appunto in questo giorno) viene scelta da Fritz Lang come protagonista di Metropolis (1927), nel duplice ruolo di Maria, dolce e prona operaia della città del futuro, e dell'automa, che sobilla la rivolta dei lavoratori. Anche grazie alle varie edizioni restaurate che ci avvicinano sempre più alla complessità, forse irraggiungibile, dell'originale (tagliato dallo stesso regista) e magari alla breve edizione, virata e musicata rock, di Giorgio Moroder (1984), Metropolis oggi è molto più di un cult: quasi un mito, citato anche dai più ignari.

Ma, come ci ricorda succintamente il Morandini, sono disparati i giudizi critici. «Nel '27 H.G. Wells lo definì “stupidissimo”, mentre Buñuel lo giudicò retorico, banale, pedante, intriso di romanticismo superato, aggiungendo che “se opponiamo alla storia la fotogenia plastica del film, allora reggerà qualsiasi confronto, ci sconvolgerà come il più bel libro d'immagini mai visto”. Piacque molto a Hitler e a Goebbels. È all'insegna del sincretismo sia per contenuti sia per forme, frutto di una moda culturale del suo tempo: la tendenza al Gesamtkunstwerk, l'opera d'arte totale. […] Può esistere un film stupido e geniale? Il contrasto tra la melensaggine mistica da romanzo d'appendice di Thea von Harbou che lo scrisse e la forza visionaria di suo marito Lang rimase irrisolto. Metropolis è un capolavoro di cinema decorativo, la messinscena di un delirio.»

V'è però dell'altro, se vogliamo fare del sano contenutismo, come osa un giovanissimo critico nel 1961 sull'insospettabile (o sospettabilissimo?) Cinema Nuovo: «il “messaggio” lanciato dal film consiste nel proclama annunciato dalla messianica Maria nelle nuove catacombe: “Fra il cervello e il braccio, il collegamento è il cuore” e che nel finale vede il capo degli operai, intimidito, remissivo e confuso, di fronte al padrone-despota in redingote: “Essi vorrebbero comprendersi – commenta una didascalia – ma manca loro un punto d'unione”. Lo troveranno, grazie al giovane che in uno slancio di curiosità snobisticamente anticonformista ha abbandonato i “quartieri alti” per seguire la sfibrante esistenza degli operai-automi e la ragazza plebea di cui si è incapricciato: sarà egli – disposto figurativamente accanto al padre – a unire le due diverse mani protese. L'operaio, insomma, è un brav'uomo, che deve accontentarsi di quanto gli viene munificamente concesso: quando cerca di organizzarsi, di ribellarsi, è solo la sua forza bruta che prorompe, e forza autolesionistica, oltretutto, perché rivolta alla distruzione cieca di quelle macchine-Moloch che gli assicurano il pane e la stessa esistenza, sua o dei figli (da cui l'episodio dell'inondazione dei sotterranei). [...] E come non comprendere che il sinistro bagliore di quel rogo su cui viene immolata la Maria “artificiale” […] prelude a tanti simili spettacoli che si svolsero sulle piazze del Terzo Reich? O che l'ambiguo Max, “punto d'unione” fra i monopoli schiavistici e i socialdemocratici traditori della loro classe (e strumento di entrambi), raffigura nella sua lucida follia amorosa (visualizzata nel film quando il giovane si ritiene tradito dalla ragazza, e conclusa figurativamente con la caduta nell'interminabile abisso) lo stesso Führer, e le voragini da lui scavate nel cuore dell'Europa, e nelle quali egli stesso precipiterà (non senza aver lasciato degni continuatori) come suggestivamente ha previsto Brecht nel suo Schweyk

Fatto sta che in tutto questo bailamme chi ci rimette è la povera Brigitte, condannata dalla sua algida bellezza e dal ruolo che la imprigiona a una sorta di coazione a ripetere, dopo alcuni tentativi di farne una donna fatale e una star internazionale. Così la rivediamo interprete delle due edizioni di Alraune (La mandragola, 1928, di Henryk Galeen, e La figlia del male, 1930, di Richard Oswald), ove è una creatura nata da un esperimento di fecondazione artificiale e dai poteri eroticamente distruttivi, e l'anno successivo la troviamo nei panni della misteriosa e ambigua regina Antinea per Die Herrin von Atlantis (Atlantide), di Pabst. Lo stesso regista che l'aveva voluta, ma senza troppo convincere, angelica ragazza cieca in Der Liebe der Jeanne Ney (Il giglio nelle tenebre, 1927) e tormentata moglie anticonformista in Abwege (Crisi, 1928).

Nel 1935 – dopo poco più di una ventina di film in meno di dieci anni – , ancora celebre ma forse incapace di gestirsi, si ritira a vita privata, con un marito “normale” (tale Hugo Kunheim) e i loro quattro figli. Muore il 22 giugno 1997 ad Ascona (Canton Ticino), all'età di 91 anni.