«Per qualche attimo gli parve di vedere a poca distanza lo sperone di scogli – cento metri? cinquanta? – ma i suoi occhi erano appannati, la mente confusa e quando tornò a cercare con lo sguardo la meta finalmente raggiunta, la costa gli apparve in un irreale e lontano tremolio di miraggio. Ora intorno a lui, a mezz'acqua, scivolavano senza sfiorarlo grosse meduse d'ogni colore, rosa, viola, argentate, silenziose, pulsanti, come un corteo di pallide lanterne multicolori. Ma gli occhi del ragazzo non le distinsero, non le videro, mentre calava lentamente in mezzo a loro. Riemerse e sul suo volto non c'era paura, solo un enorme stupore che divenne fulmineo pensiero: “Ma questa è la morte!” E tutto in lui fu soltanto stupore enorme e abbandono.»
Al compiere dei 90 anni, Tullio Pinelli pubblica il suo primo libro di racconti, La casa di Robespierre (Sellerio, 1998), dall'ultimo dei quali, La medusa, abbiamo riportato la fulminante conclusione. Riporta il risvolto di copertina: «è la fuga da un obiettivo rincorso per tutta la vita ad accomunare i protagonisti dei cinque racconti: tutti finiranno per rinunziare, a volte in modo drammatico, quando il desiderio rischia di realizzarsi».
Entrambe le citazioni ci sono tornate in mente al momento della sua scomparsa, il 7 marzo 2009, ormai centenario, quasi che fossero anche la metafora di una vita.
Con questo smilzo libretto si affacciava al campo della letteratura colui che era stato qualcosa di più di uno sceneggiatore: il narratore per antonomasia di Fellini (Luci del varietà, I vitelloni, La strada, Le notti di Cabiria, Il bidone, La dolce vita, 8 ½, Giulietta degli spiriti, Ginger e Fred, La voce della luna), ma anche di Germi (Il cammino della speranza, In nome della legge, Il brigante di Tacca del Lupo, Alfredo Alfredo, Serafino) e più sporadicamente di Monicelli, Lattuada, Rossellini, Bolognini, Pietrangeli.
Eppure l'avvocato torinese nato in questo giorno d'inizio secolo, compagno di studi e amico di Pavese, appartenente al gruppo antifascista degli allievi di Augusto Monti, giunto a Roma dal 1942 e presto drammaturgo per il teatro e la radio, al mondo del cinema non era mai piaciuto, un sentimento contraccambiato. Difficile immaginare questo piccolo signore dall'accento subalpino nelle esuberanti tavolate romane, e a ben pensare tutti i suoi apporti ai titoli citati sono all'insegna di uno spiritualismo e di un moralismo – diciamo pure di un perbenismo – che ben poco hanno a che fare, ad esempio, con i canoni della commedia all'italiana.
Ma, a proposito della morte, merita la citazione un brano dell'intervista concessa da Pinelli a Federico Pacchioni il 14 luglio 2007 e riferita naturalmente a Fellini: «Sicuramente non gli piaceva l'idea di morire come non piace a nessuno. Però lui l'aveva messa su questo tono, proprio la cosa che lui diceva era: "Si dice che la morte cala il sipario, invece è il contrario, è quando il sipario finalmente si apre e si vede cosa c'è di là". Quindi lui era curioso di tutto, curiosissimo della vita ultraterrena, se c'è e che cos'è è, come si svolge, e quindi l'aspettava con paura e anche con interesse, con curiosità». Con o senza meduse.