La Cina è vicina, sosteneva nel 1967, in confusa fase maoista, Marco Bellocchio, ma non si riferiva certo alla sua realtà fisica e geografica. Tuttavia il cinema italiano della Cina aveva da tempo sentito il fascino, e ancora lo avrebbe dimostrato negli anni a venire.
È il caso di Carlo Lizzani che nel 1958 porta a termine, dopo dieci mesi di lavorazione e soprattutto di estenuanti trattative, La muraglia cinese, primo lungometraggio girato oltre la “cortina di bambù” da una troupe occidentale su un mondo ancora misterioso e già pronto ad attrarre le simpatie di certa gauche, la stessa che si dichiarerà delusa dal risultato. Nel farisaico commento di Giancarlo Vigorelli non compare mai la parola “comunista” né vi si cita Mao, e il filmato privilegia le riprese pittoresche a quelle sociali, tutt'al più facendo un po' di etnologia. Scrive Moravia: «La Cina, quale ci appare, sembra essere un paese nel quale la rivoluzione comunista ha lasciato intatti usi e costumi del passato», con ciò rassicurando un po' tutti.
Ci riprova nel 1972 Michelangelo Antonioni, invitato direttamente dal governo cinese attraverso Zhou Enlai, ma a ciò si oppongono la moglie di Mao, Jiang Qing, e la cosiddetta “banda dei quattro”, trasformando il caso del film in un fatto internazionale. Solo otto le settimane di riprese concesse al regista e Chung Kuo, Cina, poco più di tre ore televisive, con un bel testo di Andrea Barbato, ne risente: feroci attacchi da parte dei maoisti nostrani e bando in Cina, sino alla “riabilitazione” nel 2002.
Ma la stessa Rai che penalizza Antonioni ci riprova dieci anni dopo, col che – il 5 dicembre di 32 anni fa – può trionfalmente proporre sui teleschermi la prima delle sei puntate del suo Marco Polo. È la prima collaborazione tra una televisione occidentale e una cinese, nonché il primo teleromanzo occidentale girato in Cina, e per la prima volta i diritti si vendono in 46 paesi. Artefice del kolossal è, tra la sorpresa generale, Giuliano Montaldo, che mai sino allora aveva dimostrato grande respiro, ma che si rivela un imperturbabile regista-manager di tutto rispetto.
Non si è scomposto ai tempi del suo film d'esordio, quel Tiro al piccione (1962) che osa affrontare l'ambigua e tormentata presa di coscienza di un giovane repubblichino. Ha avuto coraggio nella sua trilogia sul potere militare, giudiziario e religioso (rispettivamente Gott mit uns, 1970; Sacco e Vanzetti, 1971; Giordano Bruno, 1973). Attorno agli 80 anni (con I demoni di San Pietroburgo, 2008, e L'industriale, 2011) insegna ancora come si fa del buon cinema. E col suo Marco Polo riesce perfino a rendere umanamente credibile la Cina di sette secoli prima, senza scordare l'aspetto degli affari.
Basta leggersi un brano del suo autobiografico Un marziano genovese a Roma (Felici, 2013): «[rispetto a Lizzani e ad Antonioni] si trattava di fare un lavoro molto diverso, di avere un rapporto di lavoro con quel mondo, perché le comparse non potevano non essere cinesi e perché la logistica richiedeva sforzi importanti. I capitali del film erano anche americani ma pure questo ha una spiegazione storica. Eravamo nel 1980, Mao era morto, il regime cinese iniziava a confrontarsi con l'Occidente e in particolare proprio con gli Stati Uniti ponendo le basi per quella che di lì a poco sarebbe stata la loro enorme forza commerciale. Nulla mi toglie dalla mente che l'impegno di un coproduttore americano fosse spiegabile perché anche i giapponesi cercavano canali privilegiati, commerciali, per fare affari con quel gigante che si apriva al mondo. [….] In questa corsa alle aperture commerciali, io riuscii a inserirmi con il mio progetto».
E poi la chiamano fiction!