“L'è el dì di Mort, alegher!” (Delio Tessa, Caporetto 1917) [3 - Viscontiana]
«A un anno dalla sua scomparsa, cos'è vivo e cos'è morto dell'eredità di Visconti nel mondo dello spettacolo italiano?
La domanda è forse brutale, ma non sarebbe dispiaciuta all'interessato. Anche se non era un uomo da autocritiche, lo attiravano le sfide e i confronti: antico allenatore di cavalli, si metteva volentieri in gara come un purosangue impegnato a tirare sempre la corsa.
Qualcuno ha scritto che la grande stagione creativa di un regista dura circa dieci anni. Se l'osservazione è esatta (ma accanto alle conferme ci sono anche le smentite: Chaplin, Buňuel, Hitchcock), è facile indovinare quale fu la decade ruggente di Visconti. Da Ossessione (1942) a Senso (1954): dalla scoperta antifascista del realismo franco-americano all'ipotesi di un romanzo storico che già rispecchiava l'influenza di Thomas Mann. E in mezzo, scusate se è poco, il “putsch” teatrale del '45 con la liquidazione del grande attore, la dissoluzione dei ruoli, il perfezionismo quacchero della messinscena; e poi l'ariosa avventura antropologica fra i pescatori di Aci Trezza; e per finire in musica, sull'incontro fatale con Maria Callas, la rivisitazione del melodramma.
Di quelle grandi giornate e della stagione di alto professionismo che seguì, gli allievi, i complici e i compagni di strada sono ancora in giro. Francesco Rosi sta preparando Cristo si è fermato a Eboli, Giorgio De Lullo ha appena firmato l'Enrico IV con Romolo Valli, Franco Zeffirelli viene applaudito a Londra con Filumena Marturano. Per non parlare degli sceneggiatori, come Suso Cecchi d'Amico o Enrico Medioli; degli operatori, come Peppino Rotunno o Pasqualino De Santis; degli scenografi, come Mario Chiari, Mario Garbuglia, Piero Tosi; dei musicisti, come Nino Rota o Franco Mannino; dei fratelli Mastroianni, il montatore e l'attore.
Ma la lista degli attori che possono chiamarsi viscontiani sarebbe fitta, da Paolo Stoppa a Massimo Girotti, da Lilla Brignone a Sergio Fantoni. E bisogna ricordare come l'interpretazione de Il Gattopardo segnò la carriera di Burt Lancaster alle soglie della terza età; e le splendide prove di Dirk Bogarde in La caduta degli dei e Morte a Venezia; e il merito che ha avuto Visconti nell'inventare due fra le più significative presenze del cinema mondiale, Alain Delon e Romy Schneider. Fatto eccezionale per un regista, il milanese ha perfino rivelato buon fiuto in campo drammaturgico puntando sul talento di Giovanni Testori.
Che cosa hanno tratto tutti questi artisti, e tantissimi altri, dalla lezione del Maestro? L'abitudine a considerare lo spettacolo come una situazione politico-culturale, il puntiglio di dare sempre il massimo, un aristocratico rifiuto della cialtroneria. Uno storico del costume potrebbe notare che Visconti ha anche creato, nello spettacolo italiano, un sistema di vita. Mai completamente assimilato a Roma per quel tanto di lombardo-veneto al quale non voleva rinunciare, isolato come nemico di classe dall'aristocrazia indigena, perseguitato dai sicofanti del governo negli anni della guerra fredda, sostenuto con distacco dai comunisti ai quali non osava sollecitare la tessera, Visconti fu pago di veder formarsi attorno al suo mito un clan di fedelissimi. Nella cerchia ristretta del suo palazzotto sulla Salaria si emanarono leggi non scritte, si prescrissero inclusioni ed esclusioni, si costituì una specie di governo-ombra del teatro e del cinema. Questo modello di struttura organizzata per clan, che si diffuse negli imitatori e negli epigoni, è tuttora una caratteristica dell'ambiente romano vicino allo spettacolo; e Luchino ne fu senza dubbio l'iniziatore»
(Tullio Kezich, “la Repubblica”).