Scompare a 86 anni «l'unico volto marxista del cinema italiano», come ebbe a definirlo dopo averlo diretto nel suo unico film (Il Cristo proibito) Curzio Malaparte, ed è forse non tanto paradossalmente anche per questo motivo che Raffaele Vallone detto Raf non ha avuto da quel cinema l'attenzione e le opportunità che avrebbe potuto avere in altro contesto. Sorte toccata, ma per alcune “diverse” prevenzioni, a un altro grande nostrano, Massimo Girotti. E ai due si potrebbe aggiungere Gabriele Ferzetti, ma questo è un altro discorso: la natura e l'arte possono essere matrigne, figuriamoci il cinema, patrigno – cioè ingrato – per eccellenza.
Comunista come fede ma anarchico come spirito, il calabrese Raf – già calciatore nel glorioso Torino (4 gol in serie A), già redattore di terza pagina presso l'Unità (edizione torinese) – è l'eroe giusto, quando esordisce nel cinema a 32 anni, per Riso amaro (1948, di De Santis), ed è subito maiuscolo nei successivi Non c'è pace tra gli ulivi (1949, di De Santis) e Il cammino della speranza (1949, di Germi). Completano il quadro Anna (1951, di Lattuada), Roma ore 11 (1951, di De Santis), Teresa Raquin (1953, di Marcel Carné), La spiaggia (1953, di Lattuada), Guendalina (1956, di Lattuada), Ho giurato di ucciderti (1959, di Bardem), La ciociara (1960, di De Sica), ma è Uno sguardo dal ponte (1961, di Lumet) – trasposizione della sua famosa interpretazione teatrale del testo di Arthur Miller (Parigi, 1958, con regia di Peter Brook) – ad assicurargli fama internazionale (tradottasi in seguito, ahimè, in una serie di ruoli di routine).
Ciò che il cinema a un certo punto gli nega lo ritrova frequentemente in teatro (ma anche in televisione: basti pensare a Il mulino del Po, 1963, di Bolchi). Quando nel 2001 si decide ad affidare i propri ricordi a Franco Sepe per il libro Alfabeto della memoria, Carlo Lizzani potrà scrivere di lui: «Deve essere stato alto il prezzo pagato da Vallone per trovare, nell'arco ininterrotto di mezzo secolo, un costante equilibrio tra i rigori di una professionalità che non ha mai avuto momenti di cedimento e una natura solare, anarchica in senso proprio etimologico,che avrebbe potuto portarlo a una continua dispersione di energie e di pulsioni creative».