La scomparsa avvenuta a Parigi, per tumore al fegato, all'età di 57 anni, di Pierre Clémenti, attore simbolo degli anni '60 per Buñuel, Bertolucci, Pasolini, Garrel, Cavani, Rocha, Jancsó, in un crescendo di personaggi ambigui e nevrotici, spigolosi e aggressivi, ci riporta a una pagina vergognosa della giustizia italiana. La sua carriera viene stroncata dall'arresto (Roma, 24 luglio 1971) per (dubbio) possesso di un piccolo quantitativo di droga e dalla relativa condanna a due anni di detenzione.
La drammatica esperienza viene da lui descritta nel libro Carcere italiano (Il Formichiere, 1973), di cui merita riportare almeno un brano: «È cominciato il periodo delle rivolte. Abbiamo fatto noi stessi la nostra educazione, sul posto. Abbiamo imparato una cosa che non s'insegna alla Sorbona, né a Saint-Cyr, né al Politecnico, e che vale molto di più di quanto si insegna in questi luoghi prestigiosi: abbiamo imparato a lottare per farci rispettare. A essere uniti, ad agire insieme, a rimanere solidali a dispetto delle provocazioni e delle manovre della direzione per dividerci. Credo che i detenuti che hanno provato una volta la forza straordinaria che deriva dalla loro unità, non la dimenticheranno più. Anche la direzione sa questo, e dopo ogni tempesta, sparpaglia i ragazzi per tutte le prigioni del paese. Bisogna ricominciare da zero, ci vorrà tempo, ma le fiamme saliranno, le porte cederanno».
Che è una bella metafora, nonché un bel progetto d'intenti, per qualsiasi altra situazione.