L'altra faccia delle lune

L'altra faccia delle lune

L'Italia com'era

Nasce a Umago (Istria, oggi Umag, Croazia) il futuro scenografo Ottavio Scotti (morirà a Roma il 23 maggio 1975).

Comincia l'attività di architetto e arredatore con Blasetti (Ettore Fieramosca, 1938) col quale tornerà in occasione del suo terzultimo film, Io, io, io... e gli altri (1966). Ma al suo attivo stanno trentacinque anni abbondanti di ininterrotta, se pure non clamorosa, e tendenzialmente raffinatissima attività - ad onta della qualità complessiva di numerosissime produzioni in cui è implicato, magari con la mano sinistra - durante i quali mette mano a qualcosa come centoventi e più film (al ritmo quindi di tre-quattro l'anno: ma nel primo decennio la produttività è letteralmente vorticosa) passando con sovrana e professionalissima indifferenza dal lavoro d'autore alla produzione più commerciale, che gratifica sempre comunque di un'attenzione e di un'inventiva qualificata e capace di selezionare verso l'alto.

Ne costituisce ovviamente il vertice assoluto il contributo, certo tra i molti decisivi, a Senso di Visconti (1953, nel quale è coinvolto anche l'altro grande suo collega del pari rimosso, Gino Brosio, mentre ai costumi lavorano Piero Tosi e Marcel Escoffier). Ma prima c'erano stati La morte civile di Poggioli (1942) e Teresa Venerdì di De Sica (1943), e anche il Cagliostro di Ratoff con Orson Welles (1948); poi sarebbero seguiti lo sfortunato Uomini e lupi di De Santis (1957), Nella città l'inferno di Castellani (1958) e ancora con De Santis La garçonnière (1960).

Si distingue soprattutto per l'adamantina fedeltà ad alcuni “artigiani”, si sarebbe detto una volta, talora altrettanto rilevanti, immersi fino al collo nel cinema popolare e di genere delle rispettive epoche, ed evidentemente ben lieti di procedere in sua compagnia. Curioso che i nostri più intraprendenti storico-critici, quelli sempre intenti a rivalutare tutto e tutti combattendo le puzze al naso intellettualistiche, non vi abbiano dato il debito peso - o almeno si crede, magari per ignoranza anche solo bibliografica. Infatti le collaborazioni di Scotti diventano già di per sé, filmograficamente parlando, un catalogo impressionante del cinema popolare italiano tra guerra e dopoguerra, non di rado debitore di soggetti a pagine o copioni teatrali che oggi faticheremmo non si dice a prendere sul serio, anche solo ad aprire.

È il caso, per non citare che i più ricorrenti, di Max Neufeld (Mille lire al mese, 1939; Taverna rossa e La prima donna che passa, 1940; Il tiranno di Padova, 1946) e soprattutto Guido Brignone, il dimenticato padre dell'altrettanto rimossa Lilla (La mia canzone al vento, 1939; Cantate con me, 1940; Mamma, 1941; Catene invisibili e Romanzo di un giovane povero, 1942; Il fiore sotto gli occhi, 1944; Bufere, Ivan e Noi peccatori, 1953; Processo contro ignoti, 1954; Quando tramonta il sole, 1955; Nel segno di Roma, 1959, il suo ultimo film in cui, dopo la sua scomparsa, Anita Ekberg-Zenobia già in odore di Dolce vita viene diretta, per completare le riprese, con ammirevole spirito di colleganza, da Michelangelo Antonioni), Oreste Biancoli (Piccolo alpino, 1940; Penne nere, 1952), Camillo Mastrocinque (I mariti, 1941; Le vie del cuore e Fedora, 1942; La maschera e il volto, 1943; L'uomo dal guanto grigio, 1948; Gli inesorabili, 1950; Napoli terra d'amore, 1954; È arrivata la parigina, 1958), Nunzio Malasomma (Scampolo, 1941; Incontri di notte, 1943), Carlo Ludovico Bragaglia (Se io fossi onesto, 1942; Orient Express, 1954), Giorgio Bianchi (La maestrina, 1942; Una piccola moglie, 1943), Giorgio Ferroni (Il fanciullo del West, 1942; Senza famiglia e Ritorno al nido, 1946), il certo globalmente non secondario Vittorio Cottafavi (I nostri sogni, 1943; La fiamma che non si spegne, 1949; Nel gorgo del peccato, 1954), Goffredo Alessandrini (un altro da ristudiare: Chi l'ha visto e Lettere al sottotenente, 1945), Duilio Coletti (l'insolito e interessante Il grido della terra, 1949; È arrivato l'accordatore e Wanda la peccatrice, 1952), fino all'ormai consacratissimo Raffaello Matarazzo, al fianco del quale diviene insostituibile per tutto il suo periodo aureo (Catene-Tormento-i figli di nessuno, 1949-52; Chi è senza peccato, 1952; La schiava del peccato, 1954; Vortice e L'angelo bianco, 1955), portando fino in fondo la propria esperienza di ambientatore dell'Italia fotoromanzo-peccaminosa, coi melodrammi strappacuore spadroneggianti nella parte centrale degli anni democristiani.

E da ultimo, tra gli altri, Mario Bava e Antonio Margheriti, per i quali neppure disdegnerà, all'occorrenza, nell'effimera stagione inobliabile del cinema nostrano finto-straniero, in una sorta di autarchia alla rovescia, di fregiarsi di ricercatissimi pseudonimi quali Dick Grey (sic) e Warner Scott (appunto...).

Anche in queste piccole cose un grande.