Muore nel suo palazzo tra il verde nei pressi di Aylesbury (Buckinghamshire), all'età di 96 anni, assistito sino a pochi mesi prima dal 76enne compagno Martin Hensler (un maestro esteuropeo di giardinaggio) che lo precede nella fine, Arthur John Gielgud, nato a Londra il 14 aprile 1904 e «sir» dal 1953. Lo stesso anno – guarda caso – in cui viene condannato per atti osceni in luogo pubblico. Ma gli spettatori sono dalla sua parte e gli tributano un'ovazione quando appare sul palcoscenico: è solo l'inizio della lotta per decriminalizzare l'omosessualità nel regno di Sua Maestà britannica. Eppure di questi fatti non si ha notizia nei “rispettosi” necrologi italiani. Né si racconta dell'animalista convinto e tenace, che si batte all'inizio degli anni '90 contro l'industria del foie gras, raccontando in un video l'ingrassamento forzato di oche e anatre.
Qui lo si ricorda pittosto – magari senza averlo mai visto – come mostro sacro del teatro britannico (Shakespeare anzitutto, sin dal 1924 come Romeo, ma anche Oscar Wilde e Anton Čechov), prestato al cinema (dopo l'isolato, e dal non felice esito, L'agente segreto, 1936, di Hitchcock) grazie a interpretazioni variamente memorabili: da quelle “shakespeariane” (Giulio Cesare, 1953, di Mankiewicz; Giulietta e Romeo, 1954, di Castellani; Riccardo III, 1955, di Olivier; Falstaff, 1966, di Welles) a quelle ugualmente “classiche” (Santa Giovanna, 1957, di Preminger; Galileo, 1974, di Losey, Becket e il suo re, 1964, di Glenville) a quelle parimenti in costume (Il giro del mondo in ottanta giorni, 1957, di Anderson; I seicento di Balaclava, 1968, di Richardson; Assassinio sull'Orient Express, 1974, di Lumet; Momenti di gloria, 1980, di Hudson; The Elephant Man, 1980, di Lynch; Gandhi, 1982, di Attenborough), nonché, godibilissimo, Il caro estinto (1964, ancora di Richardson).
Vengono però in tarda età i ruoli per cui maggiormente lo apprezziamo: Arturo (1981, di Steve Gordon, che gli frutta l'unico premio Oscar), Providence (1977, di Resnais), Direttore d'orchestra (1979, di Wajda), Barbablù Barbablù (1987, di Fabio Carpi) e L'ultima tempesta (1991, di Greenaway), in cui sintetizza il suo rapporto di teatrante al cinema, così come – più didascalicamente – lo espone in un breve ritratto d'attore girato da Kenneth Branagh nel 1994, sulla base di una pièce di Anton Čechov, appunto Il canto del cigno.
Che – fuor di metafora – era un animale di tutto rispetto.